È una bizzarra coppia di investigatori quella formata dal sergente della polizia imperiale «Surrender-not» Banerjee e dal capitano Sam Wyndham. Il primo viene da una famiglia della borghesia indiana e ha frequentato con ottimi risultati Cambridge, il secondo è uno sbirro anomale, approdato alla sicurezza nazionale dopo il battesimo del fuoco delle trincee della Prima guerra mondiale. Sono questi due personaggi a guidare l’indagine nell’India coloniale – secondo la dizione inglese, Impero anglo-indiano o British Raj – che Abir Mukherjee, nato a Londra nel 1974 da una famiglia del Bengala e cresciuto in Scozia, ha intrapreso con la serie poliziesca inaugurata lo scorso anno da L’uomo di Calcutta, cui ha fatto seguito di recente Un male necessario (pp. 348, euro 17), entrambi pubblicati da Sem che annuncia per la prossima estate l’uscita del terzo capitolo della serie, giunta in Gran Bretagna al suo quarto episodio. Un’avvincente ricostruzione in chiave criminale di una stagione destinata a far sentire la propria eco fino ai giorni nostri. Mukherjee è tra gli ospiti di Bookcity che si apre oggi a Milano: interverrà domenica 17 alle 16 al Mudec con Edoardo Vigna.

Partiamo dall’inizio: che cosa ha spinto un giovane scrittore «bengalese-scozzese-britannico-asiatico» – la definizione è dello «Scotsman» – a cimentarsi con un «giallo» ambientato nell’India coloniale degli anni Venti del Novecento?
Credo sia nato tutto come una sorta di ricerca della mia identità. I miei genitori vengono dall’India e sentivo che conoscere il periodo del dominio britannico in quel Paese era importante per capire di più chi fossi, quali fossero le mie radici. L’epoca del Raj non è studiata davvero nelle scuole britanniche e perciò sono cresciuto con molte domande che non trovavano risposta. Ho imparato di più sulla storia tedesca e italiana negli anni Venti e Trenta che su quella inglese di quel periodo. Perciò ho deciso di colmare da solo queste lacune, anche perché ritengo che né le fonti britanniche né quelle indiane abbiano davvero raccontato fino in fondo quella stagione. Non essendo uno storico, ho pensato che con il romanzo poliziesco avrei potuto indagare meglio tra le pieghe della società coloniale, capire non solo quanto era accaduto ma anche come le persone avevano vissuto quella vicenda complessa. Per questo ho inviato un detective britannico a Calcutta nel 1919: per osservare con gli occhi di un estraneo che nulla conosce di quella realtà ciò che sta accadendo in quel luogo e in quel tempo.

Lo scrittore Abir Mukherjee

Nel romanzo di debutto della serie si ricorda il massacro di Amristar, avvenuto nel Punjab nel 1919 ad opera degli inglesi che causò 379 morti, ne «Il male necessario» emerge come Londra fosse disposta a qualunque cosa pur di non perdere il controllo del Paese dove cresceva il movimento per l’indipendenza. Sta scrivendo una «contro-storia» del colonialismo?
In realtà non la considero come una «contro-storia» perché non esiste una definizione accettata da tutte le parti delle vicende di quel periodo. Ciò che viene insegnato in India è ovviamente molto diverso dalla Storia che si legge nei manuali scolastici della Gran Bretagna. Personalmente ritengo che né l’opinione britannica né quella indiana siano completamente corrette. Dato che mi muovo da sempre tra queste due culture, che sento di appartenere ad entrambe, credo di poter guardare tutti e due i lati della Storia e forse raccontarne una versione più accurata che tenga conto degli uni come degli altri. I crimini del colonialismo sono evidenti, ma quella stagione contiene ancora elementi da analizzare con cura.

Nei suoi romanzi emerge anche un volto inedito dell’India dell’epoca, come nel caso dei regni guidati da dinastie di donne, per altro musulmane, di cui parla nel suo ultimo romanzo.
Volevo scrivere degli Stati principeschi indiani dell’inizio del XX secolo perché rappresentavano qualcosa di affascinante. A quei tempi i maharaja erano tra gli uomini più ricchi del mondo, venerati quasi come dei, ma l’occupazione britannica li rese delle tigri di carta, pressoché privi di ogni potere. Facendo le ricerche per il libro mi sono però imbattuto in questa storia di principesse e maharani che hanno svolto un ruolo importante per mantenere le tradizioni e la cultura di molte zone dell’India. Da tempo si sottolinea ad esempio come l’harem non rappresentasse solo uno spazio a disposizione del maharaja, ma anche un centro di potere politico ed economico per le donne e delle donne. Il caso più eclatante fu il regno di Bhopal, nelle regioni centrali del Paese, che per quasi cento anni fu governato dalle donne; e non da donne indù, ma, appunto, da donne musulmane. Una vicenda spesso trascurata dalla storiografia che volevo raccontare. E credo di esserci riuscito.

I suoi romanzi raccontano il passato, ma sembrano farlo avendo bene in mente il presente: l’ombra del passato coloniale emerge ancora oggi nelle discriminazioni e nel razzismo diffusi nel Regno Unito?
Questi romanzi sono il mio modo di ricordare sia agli inglesi che agli indiani che possiedono un passato comune, quale che sia il giudizio che su tutto ciò si esprime. È vero che il passato coloniale getta ancora un’ombra oscura sui britannici e sulla nostra ricerca di un’identità nel 21° secolo – io sono nato e cresciuto (e ne possiedo la cittadinanza) nel Paese che ha colonizzato quello in cui sono nati i miei genitori -, ma, al tempo stesso, e si potrebbe dire paradossalmente, questo ha reso la cultura britannica più aperta e includente di altre, pensi ai francesi o ai tedeschi di oggi ad esempio. Nel centro di Londra, di fronte al palazzo di Westminster, dove ha sede il Parlamento della Gran Bretagna, c’è una statua del Mahatma Gandhi che si erge quasi di fronte a quella di Winston Churchill. Riuscite ad immaginarlo altrove? L’uomo responsabile della cacciata degli inglesi dall’India ha il suo omaggio in forma di statua nel centro simbolico della nostra democrazia. Non riesco a pensare a un altro paese in cui potrebbe accadere lo stesso. E, malgrado il razzismo esista e faccia sentire tutto il suo odio, non solo i simboli confermano quanto sto dicendo. Oggi, due tra le cariche pubbliche più alte del Regno Unito – il Cancelliere dello Scacchiere e il Segretario di Stato per gli Affari Interni – sono occupate da asiatici-britannici: uno musulmano e una indù. E il sindaco di Londra è un musulmano, figlio di immigrati pakistani. Oggi si parla molto della crisi del multiculturalismo, ma fino ad anni recenti, e a mio giudizio ancora oggi, il termine «britannico» ha avuto un significato aperto e accogliente: si può essere inglesi-britannici, britannici gallesi o scozzesi, ma anche asiatico-britannici o africano-britannici.

Il colore della pelle non resta un simbolo che, come nell’età coloniale, porta con sé anche una qualche gerarchia sociale?
Penso che il problema più grande della Gran Bretagna abbia in realtà a che fare con un altro elemento: la classe. Il mio caso illustra bene la situazione. Come figlio di immigrati dalla pelle scura, ma appartenenti alla classe media indiana, ho avuto migliori prospettive di vita e opportunità rispetto ai ragazzi bianchi della classe operaia che sono cresciuti a meno di dieci miglia di distanza da casa mia. Certo, il colore della tua pelle può fare la differenza, ma è spesso meno importante della classe dei tuoi genitori. E anche la stessa Brexit, che considero una autentica tragedia, ha le proprie radici nell’insicurezza economica e sociale, nella crisi. Le stesse cause che hanno alimentato la crescita del populismo e dell’estremismo di destra in tutto il mondo.

La coppia di investigatori protagonisti dei suoi romanzi, uno indiano e l’altro inglese, amici, complici e sempre attenti alle caratteristiche l’uno dell’altro, fanno pensare a Arthur Conan Doyle e a Agatha Christie. Anche per il romanzo poliziesco l’India di quel periodo ha annunciato la realtà multiculturale del Regno Unito di oggi?
La Gran Bretagna è stata multiculturale fin da quando i vostri antenati romani arrivarono nelle nostre isole umide e ventose: e devo dire che non ho mai capito perché lo abbiano fatto. Perciò è chiaro come il multiculturalismo di oggi sia almeno in parte anche un retaggio del tempo dell’Impero. Tuttavia, ciò che alcuni bianchi britannici tendono a dimenticare, è proprio il motivo per cui quel gran flusso di immigrati dalle Indie occidentali, dall’Africa e dal Subcontinente indiano arrivò in Gran Bretagna negli anni ’50 e ’60. Furono «invitati» a venire a ricostruire la Gran Bretagna in frantumi del dopoguerra. Vennero a fare gli autisti di autobus e gli addetti alle pulizie, ma anche i medici, gli infermieri, gli ingegneri e gli avvocati. Sono stati trattati molto duramente, ma hanno fatto della Gran Bretagna la loro casa e sono sicuro che questo è diventato un Paese migliore soprattutto grazie a loro.