La prima delle carovane migranti è divisa: 2.500 sono arrivati a Tijuana, 1.300 sono a Mexicali, e altri 1.700 si sono per ora fermati in Sonora. Altre due carovane da 2.000 persone l’una stanno attraversando il Messico alla volta del confine con gli Usa. Erano stati promessi pullman per andare da Mexicali a Tijuana, non sono mai arrivati perché nella città di confine non ci sono spazi sufficienti per accogliere nuove persone. Se non riusciranno ad arrivare tutti e tutte a Tijuana e se lì al confine non sapranno muoversi collettivamente le forze accumulate lungo gli oltre 3.500 km rischiano di svanire.

Luis Hernandez Navarro, editoriali de La Jornada, ha recentemente scritto che «chi oggi fugge dai propri paesi alla ricerca del sogno americano lo fa lasciandosi dietro le rovine fabbricate dall’impero», così al confine dell’impero militari, filo spinato, e tensioni anti-migranti sono la realtà.

A Tijuana è arrivato Josué Ernan Martínez, nato meno di vent’anni fa in un paese del dipartimento di Colón, nel nord-est dell’Honduras. Come tanti, ha deciso di unirsi alla Carovana dopo averne sentito parlare in tv. Anche se ha un fratello e una sorella che vivono negli Stati Uniti da un po’ di tempo, tra i suoi pensieri non c’era quello di partire. Una serie di pali metallici dividono il territorio messicano da quello statunitense camminando nelle acque fino a perdersi tra le onde. Sul lato nordamericano degli operai, di origine latina, lavorano per aggiungere filo spinato sulla cima della palizzata costruita da Clinton, a partire dal 1994. «Ieri sera é stato abbastanza brutto», racconta Josué, «ci dicevano di andar via, hanno iniziato a insultarci, volevano che andassimo a dormire sulla spiaggia dove fa ancora più freddo. Non credo che rimarremo qui questa notte».

Il racconto di Carlos Enrique Aguilar è simile: «Eravamo tranquilli, senza rispondere alle provocazioni. A un certo punto sono avanzati verso di noi lanciando una borsa di spazzatura. Abbiamo iniziato a rispondere con delle pietre. Cosa dovevamo fare?». Mercoledì scorso una sessantina di abitanti di Tijuana ha attaccato i migranti appena arrivati. Il gruppo in diretta social intona il «El pueblo unido, jamas será vencido» e poi cori che inneggiano alla patria – «Messico! Messico! Fuori da qui! Il Messico ai messicani» – sventolando il tricolore.

Paloma Zuniga, la protagonista del live, fa parte del gruppo Latinos for Trump e sul web si presenta come un’attivista che ama gli Stati Uniti, nata in Messico e che a dieci anni è entrata negli Usa in maniera regolare. Per il sindaco di Tijuana, Juan Manuel Gastélum, la città non deve più accogliere migranti, li definisce «vere e proprie orde di ubriachi e vagabondi», dichiarazioni che gli sono valse il soprannome di «Trump di Tijuana». In città migliaia aspettano di entrare legalmente negli Usa da mesi o da anni. Sempre a Tijuana, dal 2016 ci sono migliaia di haitiani, attirati dalla possibilità di richiedere asilo politico offerta da Obama e poi bloccati da Trump, che hanno costruito una propria comunità. La città è divisa in due, da una parte la solidarietà dall’altra le urla anti migranti.

Oggi la spaccatura prenderà corpo: alla stessa ora la marcia contro la carovana da una parte, dall’altra una marcia contro la discriminazione. A Tijuana la porosità dei confini si fa muro ed esercito, difficile pensare che ci sia lì uno sfondamento collettivo. È difficile anche pensare che da quel valico ci siano passaggi illegali. Nei dintorni della città però ci sono luoghi dove le maglie si allargano. Comunque finirà stiamo assistendo ad una trasformazione qualitativa nelle storie di migrazione. Su quel lembo di terra che divide il Messico dagli Stati Uniti oggi si gioca una partita inedita, da una parte ci sono il fallimento delle politiche neoliberali e la miope convinzione che muri e neo-nazionalismi possano portare l’orologio del capitalismo indietro di 20 anni quando la classe media occidentale si sentiva ricca e forte, dall’altra l’umanità che in maniera pubblica e finalmente collettiva cerca di costruirsi un futuro prendendosi la luce negata.