Le tavole imbandite dalla fantascienza sono poco invitanti. Le tante pagine sul futuro temuto o desiderato sono, quando si tratta di mangiare, sono infatti scandite da un desolante pauperismo dell’immaginazione. Il cibo è un incidente di percorso, segna una pausa tra un evento e l’altro; ha una funzione energetica per ricaricare di forze il corpo umano.

Gli esploratori dello spazio profondo o di mondi alieni sono spesso colti nell’atto di ingerire pillole variamente colorate, oppure mentre mischiano bustine di liofilizzati a liquidi per essere trangugiati senza troppo soffermarsi sul gusto che arrecano alle papille gustative. La fame è stata sconfitta dalla chimica. O, all’opposto, l’umanità vive e si scanna in universi condannati alla scarsità e alla penuria.
Il mondo nuovo di Aldous Huxley è scritto poco dopo la grande Depressione, ma conquista il grande pubblico agli albori della società dell’abbondanza. Viene additato come una celebrazione della superiorità del capitalismo sul suo nemico mortale, il socialismo reale. Tra i giovani oppositori della guerra in Vietnam diventa l’atto di accusa più velenoso alla società di massa e al codice allora emergente della tolleranza repressiva. Tutto è garantito, infatti, eccetto la felicità, diritto inscritto nella costituzione della nazione fondata dai padri pellegrini.

SEDERSI A TAVOLA e dividere il pane tra eguali è celebrato non come un atto di convivialità, ma di fedeltà al potere costituito, legittimato da entità soprannaturali. Più o meno come accade nella società divisa tra Eloi e Moloi che fa da sfondo al viaggio nel tempo di uno scrittore in odore di socialismo, H.G. Wells. Lì il cibo appare come una magia sulle tavole degli Eloi. Viene messo lì dal feroce popolo che vive nel sottosuolo e che si nutre della carne umana degli uomini che vivono nel mondo di sopra.
Un grande della fantascienza, Isaac Asimov, nella saga della Fondazione Terra elogia gli imperi costruiti da eserciti di robot usati come servitori e lavoratori. Insieme di acciaio e plastica non hanno bisogno di proteine, vitamine, carboidrati, ma solo di energia. La smaterializzazione è per Asimov un orizzonte auspicabile perché il corpo è un pesante fardello di cui liberarsi. L’ideologia del transumano ha qui le sue basi, celebrando la morte del cibo come una liberazione.
Un’utopia che si colorerà con le tinte plumbee e disperanti delle peggiori distopie. In un passaggio del libro Luce Virtuale di William Gibson, il ponte simbolo di San Francisco è divenuto il laboratorio vivente dell’innovazione fai da te, del riciclo ingegnoso operato da makers capaci di ricavare manufatti da rifiuti tecnologici. È proprio lì che un gruppo di umani siede attorno a un bivacco cucinando qualcosa, forse uno spezzatino di una carne che non si capisce bene da quale animale provenga. Topi, forse. Ma è un pur sempre cibo cucinato con amore, viatico di benessere e riscatto di vite di scarto in un medioevo tecnologico dove il darwinismo sociale è la regola.

LE PADELLE, il fuoco, il sale, la carne, il pane sono strumenti per gli esclusi, agli integrati basta la chimica. Le differenze di classe emergono quindi dal rapporto con il cibo, non nell’accesso alla tecnologie e alla conoscenza. L’innovazione nasce nel ghetto, chiosa Gibson, per essere poi catturata da «cacciatori di tendenze» al soldo di qualche zibatsu globale e un po’ criminale.
Un medioevo tecnologico quello di Gibson lontano anni luce dalle rigogliose coltivazioni e allevamenti nella Contea degli hobbit. Sia chiaro, tra fantascienza e fantasy sono molti più i punti di contatto rispetto a quelli che segnano la loro diversità. Entrambi, ad esempio, oscillano tra il desiderio di un mondo perfetto e un mondo come avrebbe potuto essere.

QUEL CHE È RILEVANTE nel Signore degli anelli di J. R. R. Tolkien è che il cibo scandisce non differenze di classe, ma tra le razze. A Frodo, Sam e agli altri mezz’uomini piace mangiare, atto che lascia quasi indifferente «Granpasso» Aragon, il futuro Re. E così quando hanno solo il nutriente pane elfico per sfamarsi non fanno altro che lamentarsi per il suo sapore incolore. Imbandire la tavola, curare la scelta è infatti ciò che distingue gli uomini dagli hobbit, gli elfi dai nani. Ma questo non pregiudica il fatto che possano condividere la stessa passione per il mondo, sia che si chiami Contea che Gran Burrone, che Moira, che Gondor.
È su questo sentiero di condivisione che si inoltra Ursula Le Guin. Il suo è un fantasy radicale e sovversivo, come d’altronde è molta della fantascienza che negli anni Sessanta si fa strada tra la paura dei marziani e i mostri creati dall’olocausto. È una allegoria – come accade nel recente Cronache del giaccio e del fuoco di George R.R. Martin (il fortunato Games of Thrones) o in Hunger Games di Suzanne Collins – delle lotte di potere e del rapporto tra un arbitrario governo e i governati.

MA LA POTENZA di Ursula Le Guin sta nel fatto che i mondi da lei descritti sono paralleli a quelli vigenti; nascono come una fusione di spazio e tempo, restituendo l’idea che la storia abbia preso una direzione a causa delle azioni degli uomini e delle donne. E che avrebbe potuto e può sempre toccare altre derive e avere, quindi, altri approdi. Non c’è un passato o un presente da omaggiare, né un futuro da attendere con trepidazione. Il passato è un antecedente durante il quale sono accadute cose, alcune importanti, altre no, ma niente che possa spiegare gli accadimenti che scandiscono le storie e le saghe di Ursula Le Guin.
Non evoca mai drammi; semmai è interessata a calarsi nel mistero del pensiero che riflette il divenire sprigionato dall’incontro tra stili di vita e razze. Per la scrittrice statunitense, quel che è importante non è il superamento delle differenze, né la colonizzazione della vita quotidiana di questo o quel popolo, bensì a cosa accade quando c’è incontro tra differenze. Sono racconti di conflitti, di grandi passioni che nascono e che prendono forma nello stile piano quasi algido dei suoi molti romanzi. La libertà, la liberazione non è un apriori, bensì un processo da costruire insieme. Solo così il singolo può dare il meglio di sé. Processo faticoso, nel quale superare diffidenze, pregiudizi, in quel movimento hegeliano che supera la realtà data senza mai cancellarla.
Le tradizioni culinarie non trasudano dunque nostalgia. Nei pranzi, cene, colazioni il cibo, che deve essere sempre sano e non adulterato, è il momento dell’incontro, della scoperta di gusti, sapori, stili di vita che accendono di passione, perché non così lontani e alteri rispetto a quelli appresi nell’infanzia e codificati dalla comunità.

ANIMALI, RISO, cereali, frutta sono cucinati in maniera sempre «altra» da quella conosciuta, ma restituiscono una idea di mondo che ha forti echi nella memoria individuale e collettiva della voce narrante. Quel che finisce sulla tavola non è espressione di mondi alieni; restituisce infatti la curiosità nel conoscerli, assaggiarli, farli propri, scoprendo affinità elettive e di gusto che rendono il mangiare il giusto viatico per la buona vita. Non è un caso che nei romanzi di Le Guin la preparazione del cibo coincida con la scoperta del sé e la sperimentazione di percorsi e prassi di libertà.
Molte critiche letterarie e teoriche femministe hanno scritto che tutta questa attenzione alla convivialità e al lavoro di cura è dovuto al fatto che Ursula Le Guin è una donna. Vero, ma la potenza della sua fantascienza e fantasy radicale sta nell’aver indicato strade, modalità di relazioni che valgono per donne e uomini. L’incontro tra differenze non è infatti un pranzo di gala; c’è sempre conflitto, il giusto prezzo da pagare per una prassi della libertà e della liberazione.
Cucinare è come sviluppare la politica con la P maiuscola. Gli ingredienti devono essere scelti con cura e miscelati sapientemente. Ma per raggiungere l’eccellenza bisogna essere insieme. Altrimenti rimane il triste orizzonte di una gestione burocratica del cibo, dove uno dei tanti master chef stellati ripetono gesti e miscele di sapori che consolidano niente altro che l’amministrazione dell’ordine costituito.
La tavola di Ursula Le Guin è come una buona e sovversiva Politica: il menù sarà tanto più gustoso se deciso insieme.

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Le tavole della letteratura sono sempre state imbandite. A volte, il cibo stesso, un ingrediente, una ricetta, una tradizione conviviale sono stati i motori della narrazione. Si sono trasformati in personaggi, assumendo su di loro temi simbolici, rappresentando la vita, la morte, il destino, le emozioni. Fino a fine agosto, pubblicheremo una serie di pagine dedicate a romanzi con qualcosa da mangiare. Il logo delle nostre «Cucine letterarie» è «Kitchen range» di Roy Lichtenstein, un’opera del 1962.