C’era un Hydra a Milano. Un mostro mitologico dotato di più teste: l’unione di tutte le mafie, una confederazione criminale dedita al traffico di dorga e di armi, all’importazione di petroli dall’Africa, alla gestione dei parcheggi ospedalieri, all’uso dei bonus edilizi e dei fondi Covid attraverso società fittizie costruite a tavolino. Il tutto condito da legami con la politica e con «colletti bianchi» di vario livello. Su questo per tre anni hanno lavorato il pm della Dda Alessandra Cerreti, l’aggiunta Alessandra Dolci e il procuratore Marcello Viola, insieme ai carabinieri di Milano e di Varese.

Ieri, però, il gip Tommaso Perna ha smontato tutto: su 153 misure cautelari richieste ne sono state concesse appena 11. Non solo, scrive il giudice nella sua ordinanza: «Non è stato possibile ricavare l’esistenza di un’associazione di tipo confederativo che raggruppa al suo interno le diverse componenti criminali» perché «è del tutto assente la prova dell’esistenza del vincolo associativo tra tutti i sodali rispetto al sodalizio consortile» e perché manca «l’esternazione del metodo mafioso che deve caratterizzare l’unione tra persone e beni, tale da assurgere al rango di un fatto penalmente rilevante».

Insomma, per Perna, se «è emersa la presenza di contatti tra alcuni appartenenti alle singole componenti criminali, per lo più basati su specifiche conoscenze personali e in ogni caso afferenti a cointeressenze rispetto a singoli affari, talvolta leciti e talaltra illeciti, circostanza questa, che diversamente da quanto ipotizzato dalla pubblica accusa non costituisce un elemento innovativo nel contesto lombardo».

L’INDAGINE HYDRA era cominciata nel 2019 dopo un’operazione contro la ’ndrangheta a Lonate Pozzolo (Varese), con il pentito Emanuele De Castro che, con le sue rivelazioni, ha allargato il campo dell’indagine, convincendo la Dda dell’esistenza di un accordo tra cosa nostra, ’ndrangheta e camorra per meglio gestire i traffici al nord. Tra gli indagati c’è anche Paolo Aurelio Errante Parrino, 76 anni, pluripregiudicato per mafia che, secondo gli investigatori, avrebbe mantenuto i rapporti con Matteo Messina Denaro (almeno) fino al suo arresto. Per lui i pm avevano chiesto il carcere – avrebbe fatto da intermediario in una controversia da 2mila euro al mese per conto di una famiglia trapanese -, ma il gip ha respinto, sostenendo che manchino le prove: gli elementi offerti dagli investigatori sono giudicati «suggestivi» ma «scarsamente rilevanti».

Le indagini hanno poi documentato diversi incontri tra gli indagati ed esponenti politici, tra cui la sottosegretaria all’Istruzione Paola Frassinetti e la senatrice Carmela Bucalo, entrambe di FdI, oltre a un certo numero di amministratori locali dei comuni lombardi. Nella sua ordinanza il gip non respinge in toto le ipotesi della Dda – ha anche disposto sequestri per 225 milioni di euro -, ma nega che gli indagati siano necessariamente associati tra loro. Per quello servono le prove. La procura comunque non molla e ricorrerà al Riesame per ottenere l’arresto anche dei 143 indagati rimasti a piede libero.