Non cavalca lo slogan «La rivoluzione è finita abbiamo vinto», ma neanche abbiamo perso, il film 77 No commercial use di Luis Fulvio passato al TFF (lo vedremo anche a Filmmaker, il 9 dicembre), basta osservare la situazione della crisi italiana che neanche un neo movimento punk riuscirà a risollevare. Grande contenitore di materiali che percorrono l’intero 1977 inteso come agenda complessiva, si serve per lo spettatore ormai allenato alla  sintesi estrema delle immagini di materiali non certo consueti.

Chiunque abbia vissuto quegli anni sa bene come stampa e telegiornali travisassero gli effettivi avvenimenti: in questo caso il sapiente collage di materiali inconsueti per i canali ufficiali contribuisce a rendere un po’ più aderente allo spirito del tempo quel complesso periodo dai molti lati oscuri. Il bianco dei fumogeni e il rosso sangue, oltre al bianco e nero dei filmati, delle foto di Tano D’Amico sono la linea cromatica, il materiale visivo è costituito dai filmati ufficiali e quelli dei centri di documentazione, le pubblicazioni quelle della stampa alternativa (Rosso, Primo Maggio, le fanzine violacee e arancio, 70 nuove testate dal ’76 al giugno del ’77 per 280 mila copie) anche se all’inizio campeggia il manifesto. In più i brevi spezzoni dei film emblematici, le voci delle radio, con la solidarietà di Onda Rossa, cronache da Radio Alice con la celebre chiusura a fine anno: «C’è la polizia alla porta, sono entrati, stiamo con le mani alzate, ore 23.15 viene chiusa…».

Mentre la sinistra propone il compromesso, nelle università si elabora all’inizio la linea («la nostra linea ce l’abbiamo, la voglia di vivere»). La cesura con il movimento studentesco del ’68 è ben delineato e da quel momento sembra difficile far entrare nella durata dei duecento minuti la crescente ondata di eventi che inizia dalle evasioni e dalle sommosse nelle carceri, la contestazione a Lama, nell’università di Roma, la Lockheed, e alcuni mesi dopo proseguirà senza interruzione con le manifestazioni, l’uso dei corpi speciali di polizia, la lotta armata. Risentiamo Berlinguer all’inizio dell’anno dichiarare che senza la direzione del Pci non si esce dalla crisi e che in Italia ci sono forze sufficienti per respingere ogni tentativo di sovvertimento degli organi democratici del paese: «se fossero gli operai a fare questa insurrezione vorrebbe dire che il Pci avrebbe fallito il suo compito storico, che non è il caso, almeno fino ad ora» e sembra che parli da archeologiche distanze, tanto che in alcuni casi le parole dei militanti, strumento principe fino ad allora di ogni battaglia, si azzerano o si sovrappongono per dare spazio al silenzio del lungo elenco di morti. Roma Bologna Milano Torino sono le principali location dell’azione (ma sui muri di facoltà compare anche la scritta «Alezio» a futura memoria).

I diciassettenni di allora diventano punk e cancellano in un colpo l’Italia e quello che contiene, siano essi i simulacri chiamati ministri o i palazzi dei partiti: del resto non c’è che da passare da Botteghe Oscure alla sede della Dc, breve passeggiata, per respirare la polvere dei secoli. I ventenni di allora che avevano già messo da parte i testi sacri di Marx ed Engels per dedicarsi e Deleuze Foucault Negri Fassbinder e Starub, oggi entrati malvolentieri nella terza età, molti dei quali hanno vissuto con spirito situazionista l’impegno politico, per festeggiare per lo più la vita, ritroveranno nel film quello strano collegamento fatto di mancanza di prospettiva dei più e al contrario il decisionismo di alcuni gruppi che avrebbe portato alla fine di un’epoca in un paese utilizzato come laboratorio per sconfiggere il movimento e la pericolosa sinistra.

«L’incertezza ha provocato scompiglio» recitava Carmelo Bene. Le nuove generazioni forse neanche faranno caso a quello di cui si sta parlando: eppure la crisi in cui si dibatte oggi è da ricercare in quelle lontane origini, con i problemi di lotta per la casa, disoccupazione, sovraffollamento delle carceri, scandali ancora oscuri e piogge di soldi (come mostra un’animazione che non ha bisogno di tante spiegazioni). Se ascoltiamo ancora Rossellini: « Credo fermamente che se non si fa una rivoluzione culturale non si aggiustano le cose e per fare la rivoluzione culturale bisogna non parlare, fornire una grande quantità di dati per elaborare idee nuove… quando una crisi investe completamente una civiltà noi sappiamo per la storia che le civiltà muoiono perché si suicidano. Le azioni che si stanno compiendo sono suicide. Allora, cosa fare?».