Un memorandum di poche righe che «con effetto immediato», nell’«esercizio della mia autorità» annulla i patteggiamenti di tre dei presunti organizzatori dell’attentato dell’11 settembre – tra i quali il loro cosiddetto “architetto” – Khalid Shaikh Mohammed – con l’accusa. Lo firma il segretario della a Difesa Usa, Lloyd Austin, ribaltando l’accordo che avrebbe potuto mettere la parola fine a una vicenda legale infinita in cui nessuno ha avuto giustizia.

IN CUSTODIA degli Stati uniti dal 2003, Mohammed, Walid bin Attash e Mustafa al-Hawsawi sono stati per anni torturati nei black site segreti della Cia in giro per il mondo. Dal 2006 sono detenuti a Guantanamo, a lungo nel famigerato Camp 7 dedicato ai «prigionieri di alto valore», la cui stessa esistenza è stata negata per anni dalle autorità americane. Prigionieri da 21 anni, ma senza processo: da oltre un decennio vanno avanti – nella stessa Guantanamo – le udienze pre processuali. Funestate dalla segretezza della maggior parte degli atti, da un continuo avvicendarsi dei giudici, quasi una decina, dalle misteriose infiltrazioni: collegamenti che saltano all’improvviso, microspie nelle stanze dove la difesa incontra i suoi assistiti. E soprattutto dal modo in cui le principali prove contro gli imputati sono state ottenute, la tortura, sulla carta inammissibile anche in un tribunale militare speciale.

«UNA MACCHIA sulla fibra morale dell’America»: così una giuria non di reduci di Woodstock, ma di militari statunitensi, aveva definito le torture inflitte a Majid Khan, un altro detenuto di Guantanamo che aveva collaborato con le autorità Usa per ricostruire proprio le vicende dell’11 settembre. Centinaia di “sessioni” di waterboarding, percosse, il retto danneggiato a vita dagli stupri subiti. Non solo una macchia incancellabile: le torture inflitte ai detenuti che avevano firmato il patteggiamento pongono un ostacolo quasi insormontabile alla loro condanna. L’unica condanna possibile per chi ha revocato quegli accordi: la pena di morte. Mohammed, Attash e al-Hawsawi avevano infatti messo a disposizione la loro ammissione di colpevolezza, insieme a delle memorie in cui avrebbero dettagliato il loro coinvolgimento negli attentati, in cambio della commutazione in ergastolo della pena capitale.
Appena si è avuta notizia dei patteggiamenti, raggiunti dopo oltre due anni di lavoro congiunto di accusa e difesa, il 31 luglio, è subito iniziato il coro di voci scandalizzate, prevalentemente della destra, e riassumibili nella dichiarazione del senatore Mitch McConnell: «Una rivoltante abdicazione della responsabilità governativa di difendere l’America e fornire giustizia». Ma anche da parte dei familiari delle vittime, molti dei quali si sono detti «arrabbiati» e delusi alla prospettiva che gli assassini dei loro cari non venissero condannati a morte.

NON TUTTI: il gruppo pacifista September Eleventh Families for Peaceful Tomorrows, raccontato dallo straordinario podcast dedicato da Sarah Koenig e Dana Chivvis alla storia di Guantanamo, da anni sperava in un accordo che attribuisse delle responsabilità chiare per la morte dei propri cari, e che consegnasse loro dei racconti dettagliati su come era stata progettata, e perché. «Mi è stato detto perché lo hanno fatto, ma io non lo so», non dalla loro voce, ha detto una di loro, un’infermiera del Bronx che ha perso il fratello nelle Torri gemelle, a Koenig.

IN UN ANNO elettorale, una soluzione di vera giustizia e buon senso era forse necessariamente destinata a venire cestinata in favore di titoli di prima pagina che promettono una “rassicurante” vendetta. Quando all’orizzonte si profila solo l’eterna procrastinazione di un processo tortuoso e senza meta, e la permanenza a tempo indeterminato di uomini – ancora presunti innocenti – in una prigione che gli americani stessi vorrebbero vedere chiusa da più di un decennio. E di una commedia delle parti in cui, come osserva uno dei legali degli imputati, «l’accusa è messa lì per rappresentare le forze della vendetta, e noi per rappresentare le forze della legge». La giustizia non è mai davvero stata contemplata.