Zara McFarlane fa parte di una schiera di giovani musicisti londinesi che pur operando in ambito jazz sono attenti ai ritmi, ai suoni e alle tendenze musicali. Di suo Zara ci mette una voce suadente e ammaliante che conferisce classe alle sue interpretazioni. Songs of An Unknown tongue (Bronswood Recordings) è il suo quarto album – a tre anni di distanza da Arise – in uscita il 17 luglio. Il disco è il completamento di un progetto ancora più complesso, che partiva dall’intenzione iniziale di realizzare un musical sulla leggenda giamaicana The White Witch of Rose Hall.

MA DOPO il viaggio nell’isola, Zara si è resa conto che quelle storie stavano portando a galla una serie di idee per altre canzoni: «Man mano che studiavo e incontravo persone, crescevano in me emozioni e stati d’animo molto diversi». Il processo di costruzione dei brani l’ha portata a riesaminare il suo passato: «Undici anni fa sono andata per la prima volta in Giamaica per i funerali di mia nonna. Ho assistito a dei rituali che non comprendevo: due ragazzi hanno preparato una capra per essere cucinata e poi si sono messi a suonare delle percussioni. Non ho capito cosa stava succedendo in quel momento, ma lavorando su questi ritmi mi ha riportato a quel tempo. All’epoca non avevo la consapevolezza di oggi: quei ritmi folkloristici giamaicani sono associati alla morte, una cerimonia per aiutare lo spirito a passare nell’aldilà».

NASCE così il disco ispirato agli studi di Zara sulla sua eredità giamaicana, ma integrato da considerazioni personali. Nei quasi due mesi trascorsi nell’isola caraibica ha incontrato accademici e ha effettuato in prima persona ricerche di antropologia musicale legate ai riti dei suoi avi. Songs of an Unknown Tongue si pone quindi come un tentativo – ottimamente riuscito – di mescolare la tradizione e i ritmi giamaicani con il tocco sapiente del suo team con cui ha registrato i brani negli studi The Room di South London, guidato dal talentuoso batterista, produttore e direttore musicale Kwake Bass.

Il disco ha un titolo suggestivo: la ricerca delle proprie radici attraverso la musica…

Vero, Songs of An Unknown Tongue è proprio pensato come un modo di riappropriarsi di alcune conoscenze sul passato rimodulandole nel nostro futuro. Un modo per recuperare conoscenze della nostra Storia che avevamo smarrito, racconti dolorosi sulle tante ingiustizie subite dalla comunità nera e sugli attentati alla sua identità.

Una ricerca meticolosa e articolata. Tutte queste informazioni, condotte all’Institute of Jamaica e alla National Library, come sono state convogliate all’interno del progetto?

Mi sono concentrata soprattutto sulla musica folk giamaicana antica. Ho parlato con molti docenti presso l’Università delle Indie occidentali e ho visitato l’Istituto di Giamaica e la Biblioteca nazionale per leggere di più e ascoltare estratti della musica. Un modo per creare un contesto, capire il modo in cui la musica veniva utilizzata all’interno di varie tradizioni popolari come Dinki Mini, Kumina, Bruckins, Gerreh e Etu.

Con tutto questo materiale è tornata a Londra per lavorare sulla parte musicale con Kwake Bass e Wu Lu. Difficile amalgare tutto?

Ho spiegato ai ragazzi che la mia idea era di mettere a punto il disco facendo convivere ritmi tradizionali all’interno di un panorama sonoro più elettronico. Porta il vecchio vicino al nuovo, è il motto di partenza. Non è stato semplice perché abbiamo dovuto lavorare sia in modalità acustica che digitale, riproducendo le percussioni dal vivo nel computer per creare stampe digitali del ritmo per esplorare più suoni synth elettronici con quello originale. Liricamente e melodicamente ho scelto di utilizzare i temi della chiamata e della risposta, della narrazione e di vari argomenti ispirati direttamente dalle tradizioni popolari, così come la storia dei Caraibi e le mie prospettive personali di donna nera britannica.

Le esperienze e gli studi effettuati in questi mesi, quanto hanno influenzato la ricerca delle sue radici?

Ho sempre avuto un interesse per la storia della comunità nera britannica e giamaicana in particolare, gli ultimi anni mi hanno dato la possibilità di approfondire questi argomenti. Ma non ho finito, non vedo l’ora di poter esplorare ancora di più.

I testi dell’album non si concentrano solo sulla storia giamaicana, ma riflettono anche sulle questioni attuali: razzismo, colonialismo, razza e identità …

I testi sono un’allegoria del mio viaggio personale che esplora come gli effetti del colonialismo risuonano nella mia vita di oggi come donna orgogliosa di essere «black e british». Esplorano anche la modalità in cui passato, presente e futuro si intrecciano in uno stato perpetuo, fondendosi l’uno dentro l’altro. Riflettono sul tema dell’identità, ma ci spingono anche ad andare avanti.

I ritmi solari dell’album contrastano in qualche modo con i contenuti delle liriche. Un contrasto ricercato?

Sì, molti di questi ritmi vengono eseguiti durante le cerimonie popolari tradizionali, in particolare durante le esequie di una persona cara. Ma la morte non è la fine di tutto: questa liturgia aiuta lo spirito della persona a passare «dall’altra parte». Sono una celebrazione di unità e vita.