Xi Jinping e Narendra Modi, seduti a colloquio nella seconda ed ultima giornata della visita ufficiale del presidente cinese in India, si intrattengono per oltre 90 minuti in una «discussione esauriente», parafrasando il comunicato del Ministero degli Esteri indiano.

I rapporti tra i due giganti d’Asia, per chiare implicazioni anche solo di stazza, portano sul piatto dei colloqui bilaterali una quantità di variabili e – annose – questioni aperte che coinvolgono l’intera comunità internazionale.

La visita di Xi è arrivata a nemmeno due settimane dalla conclusione del tour giapponese di Modi, che aveva dato la stura a entusiastici commenti e magnificazioni di liasion anti-cinesi in stato embrionale, un’asse Delhi – Tokyo a fare da diga all’avanzata di Pechino. Ecco, lo scetticismo col quale avevamo accolto queste previsioni trova conferma nell’accoglienza serbata al presidente Xi, arrivato nella giornata di mercoledì nella megalopoli gujarati di Ahmedabad – feudo di Modi – tirata a lucido per l’evento.

La stampa indiana ricorda un dato significativo: era da quasi 60 anni, dai tempi di Zhou Enlai, che un leader indiano non si mostrava in pubblico – al di là delle ingessate occasioni istituzionali – con un leader cinese. L’acredine del conflitto sino-indiano del 1962, che ancora determina la confusionaria spartizione del territorio lungo il confine himalayano (affrontata a porte chiuse, con promesse di risolvere «celermente» la pratica mentre i cinesi pare stiano costruendo di nascosto delle strade nell’Himalaya «indiano»), ha lasciato pubblicamente spazio a siparietti gioviali, con Modi a presentare l’India sfavillante del miracolo economico proprio partendo dalla città di Ahmedabad. In linea con le promesse elettorali di NaMo, l’obiettivo rimane applicare il modus operandi gujarati – investimenti stranieri in cambio di «rilassamento» delle leggi a tutela dei lavoratori e dell’ambiente – anche al resto del Paese. Un progetto che vedrà la partecipazione di imprenditori cinesi, che realizzeranno due nuovi poli industriali in Maharashtra e Gujarat, e di fondi direttamente stanziati dalle casse di Pechino.

L’accordo di cooperazione economica e commerciale siglato nella giornata di ieri prevede infatti un investimento cinese di 20 miliardi di dollari in cinque anni – il Giappone ne aveva promessi 34 e Delhi sperava in una generosità cinese di almeno quattro volte superiore – con l’obiettivo di riequilibrare la bilancia commerciale tra Cina e India. L’interscambio, stimato intorno ai 66 miliardi di dollari lo scorso anno, è mostruosamente a vantaggio della Repubblica Popolare, con guadagni nell’ordine dei 35 miliardi di dollari.

La cura, nelle intenzioni indiane, sarebbe quella di facilitare l’accesso di compratori cinesi nel mercato ortofrutticolo e dei medicinali a basso costo, esportando invece servizi per il terziario e software. I soldi cinesi andranno a potenziare le infrastrutture – in particolare le ferrovie – con la promessa di iniziare finalmente il dialogo circa una partnership nell’utilizzo del nucleare civile in India: l’indipendenza energetica, d’altronde, è uno dei crucci di Narendra Modi, che solo nelle ultime settimane ha esplorato la buona volontà del Giappone di entrare nel business nucleare indiano, mentre con l’Australia è stato raggiunto addirittura un accordo di fornitura di uranio.

I leader di Cina e India hanno siglato altri 12 «accordi importanti» in materia di scambi culturali, borse di studio, facilitazioni nel rilascio di visto cinese per i pellegrini buddhisti indiani, turismo, lasciando i buoni auspici per una maggiore cooperazione globale alle frasi di rito della dichiarazione congiunta al termine della visita.
L’impressione è che Modi stia abilmente giocando una partita geopolitica su più tavoli, inserendosi nel contesto multipolare che impone buon viso a cattivo gioco con tutti: dal Giappone alla Russia, dalla Cina ai paesi Asean. Mentre la Cina, facendo valere la propria posizione di forza, si limita a gestire le varie organizzazioni transnazionali dell’area, sulle quali esercita un’inevitabile leadership.

Interessante, in quest’ottica, è l’ufficializzazione della richiesta indiana di entrar a far parte come membro permanente della Shanghai Cooperation Organization (Sco), formalizzata la scorsa settimana: sedersi al tavolo in compagnia di Cina, Russia, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan e Uzbekistan, per l’India di Modi, è un imperativo categorico.