«Anima generosa e forte / Fernanda Wittgens / dopo le distruzioni della guerra / dedicò se stessa al risorgere / della città, della cultura». Comincia così il componimento scritto da Tommaso Gallarati Scotti e inciso su marmo da Manzù per commemorare la grande direttrice di Brera morta l’11 luglio 1957, a cinquantaquattro anni, nell’appartamento di via Marina a Milano. La sua scomparsa aveva davvero impressionato la società ambrosiana nella quale aveva avuto un peso importante, guadagnato sul campo, prima e durante la guerra.
La lapide a breve tornerà visibile nel museo milanese, mentre la biografia della Wittgens, a sessant’anni dalla morte, si può ora ripercorrere attraverso il libro di Giovanna Ginex, Sono Fernanda Wittgens Un vita per Brera, uscito ora per la «Biblioteca d’Arte» di Skira (pp. 141, euro 19,00) con un saggio della stessa Ginex e brevi contributi di James Bradburne, Erica Bernardi ed Emanuela Daffra.
Nata a Milano nel 1903, figlia di Adolfo, professore di lettere al Parini, alla Statale è allieva di Paolo D’Ancona. Con lui firma il primo libro, l’Antologia della moderna critica d’arte. Una raccolta, recita il sottotitolo, di Letture complementari per l’insegnamento della scuola dell’arte nei licei. Aveva contato molto, nel panorama della riforma Gentile, l’esperienza come insegnante alle scuole superiori: lo slancio divulgativo, sostenuto fermamente anche negli anni a venire, viene da qui. L’altro incontro fondamentale è con Ettore Modigliani, l’allievo di Venturi direttore di Brera e soprintendente alle Gallerie di Milano, avvenuto quando la Wittgens diventa ispettrice per sostituire Mario Salmi, passato alla docenza universitaria. Modigliani è esemplare, nel suo rigore morale e con le sue doti di direttore e studioso. Con lui la Wittgens collabora alle prime grandi imprese espositive, fino all’allontanamento da Milano nel ’35 e alle leggi raziali del ’38, che costringono l’ebreo, antifascista Modigliani, a nascondersi per sfuggire alla prigionia; D’Ancona, per lo stesso motivo, scappa in Svizzera. La Wittgens dovette sentirsi addosso tutto il peso della loro assenza, la responsabilità civile di resistere. Nel 1940, probabilmente nel momento più tremendo per la storia della Pinacoteca di Brera, ne diventa il primo direttore donna.
Nei mesi che seguono lavora mossa da un forte sentimento di giustizia, da un «socialismo teorico-sindacalista». Oltre alle attività ufficiali, alla messa in sicurezza di un’enorme quantità di opere, svolge lavori clandestini che le causano un anno di carcere. Non si piega: la prigionia è un’esperienza umana importante sulla quale misura la forza delle proprie idee politiche, il suo rigore morale, il suo ruolo attivo nella società come intellettuale che ha la missione di difendere la civiltà e la fratellanza, a costo di sacrificare la vita stessa. Poi la guerra finisce, le polveri si depositano e comincia la ricostruzione della città e dei suoi musei devastati dai bombardamenti: lei a Brera con Portaluppi, Baroni al Castello con i BBPR; poche centinaia di passi, ma quanto era grande il divario tra i due progetti, tra le due concezioni di museo. Nel ’50 le sale di Brera, bombardate nel ’43, sono riaperte; Pelliccioli di lì a poco si rimette al lavoro sul primo restauro moderno del Cenacolo, danneggiato dalle bombe cadute nel refettorio delle Grazie. L’intervento è voluto, diretto e fortemente sostenuto dalla Wittgens con l’idea che fosse «il maggior ricupero, nel dopoguerra, di valori d’arte menomati dalla tragedia che sconvolse la civiltà europea».
Ma la Wittgens mira alla «Grande Brera», il museo universale che era già nei pensieri di Modigliani: una galleria nazionale di ampio respiro, fino al contemporaneo, senza omissioni. Da qui gli acquisti mirati, i lasciti e i doni ricevuti grazie alle amicizie, ai rapporti intessuti. Il suo «museo vivente» ne è la naturale evoluzione. Il viaggio negli Stati Uniti nel 1954 – a New York, Boston e Washington, «una delle esperienze più importanti della mia vita» – le conferma quest’idea: il museo non è un contenitore inerte, ma funzionale, e si sviluppa considerando come sua principale missione l’educazione delle masse popolari attraverso aperture serali, corsi d’aggiornamento per insegnanti, lezioni con i bambini e iniziative come «Fiori a Brera». Oggi sarebbe impraticabile e perlomeno ingenuo e potremmo, con un po’ di superficiale snobismo, sorriderne, ma in quella settimana dell’aprile 1956, negli ambienti del museo addobbati con i fiori pagati dalla Rinascente, transitavano 180.000 visitatori. E Montale si soffermava davanti alla Cena in Emmaus di Caravaggio, estasiato dalle «carnose, quasi antropomorfiche calle» che «continuano il risalto plastico» del quadro.
Sono anni di crescita. Le masse popolari cercano un riscatto sociale attraverso l’istruzione, la lettura, i viaggi, e le iniziative del museo della Wittgens cercano di rispondere a quelle aspettative: «dopo dieci anni di esperimento di elevazione popolare, ho troppo capito che il compito dell’aristocratico e dell’intellettuale progressista è, se mai, di far corpo con la massa popolare e selezionare le forze che, educate da noi, creano la società nuova». Crede in un partito di massa, nel socialismo di Nenni. È l’energica animatrice degli Amici di Brera. Una «Walkiria» – così la definisce Antonio Greppi, il primo sindaco (socialista, antifascista) della Milano liberata – irruente ma salda di principi. Quanto erano stati pervasivi le sue idee, il suo gusto, nelle case dei Mattioli, dei Cagnola, dei Saibene, per quella borghesia laica, progressista, toccata nel profondo dalla brutalità appena trascorsa della guerra e fermamente convinta del potere salvifico dell’arte?
La mole dei materiali raccolti, gli archivi e le memorie scassate per questo libro, lasciano intendere il senso profondo, civile e umano dell’intensa parabola di un’intellettuale in simbiosi con le istituzioni che ha guidato. Anche le polemiche, i conflitti, le asperità che pure non sono mancate e rischiano d’essere smussate dall’agiografia, dicono molto su quei decenni spesi nella ricostruzione dell’identità di un popolo, di un paese, sulle proprie macerie. È un mondo che non esiste più, ma tanta di quell’esperienza potrebbe tornare utile; dopo più di mezzo secolo e così tanti, profondi cambiamenti, sembra che anche oggi, come sulle macerie del ’43, la diffusione della cultura attraverso l’educazione di base, e dell’amore civico in spazi come i musei, siano una delle poche garanzie alla sopravvivenza dei valori di civiltà.