«Uno scontro culturale europeo senza precedenti, irreversibile e di dimensioni mai più conosciute»: così Mara Fazio sintetizza il vasto programma, brillantemente realizzato, del suo saggio Voltaire contro Shakespeare (Laterza, pp. 212, € 19,00), focalizzandosi sul duello tra i protagonisti evocati nel titolo. In un breve e concitato volgere d’anni, l’assetto culturale che si era esteso dall’Atene ellenistica a Parigi, passando per Roma e Firenze, viene «definitivamente sconvolto». La scoperta di Shakespeare (inaugurata, oh ironia!, da Voltaire stesso) pone fine all’egemonia culturale neolatina, aristocratica e francese. I sacri dogmi della purezza dei generi e delle unità di luogo, tempo e azione vengono soppiantati dal liberismo protoromantico di un’emergente cultura borghese che identifica l’essenza della poesia nella libera creatività: «l’ideale del genio sconfigge quello del gusto». E così «nasce l’epoca che oggi si sta chiudendo, nella quale la lingua francese è stata sconfitta da quella inglese, proprio come il francese agli inizi del Seicento aveva sconfitto l’italiano».

Nel 1726 il trentaduenne Voltaire, deciso a diventare il terzo drammaturgo classico dopo Corneille e Racine e con già due tragedie alle spalle, viene bastonato dai servi di un conte con cui era entrato in polemica. Protesta, ma l’ancien régime protegge i nobili. Il borghese che non incassa in silenzio viene chiuso nella Bastiglia e sollecitato all’esilio. Voltaire (che a Parigi aveva frequentato Lord Bolingbroke) sceglie l’Inghilterra che lo intriga per la novità delle sue istituzioni politiche (la monarchia costituzionale), della sua scienza (Newton), della sua filosofia (Locke). «A Londra» scrive «non c’è nessun’altra differenza tra gli uomini che quella del merito». Impara un po’ l’inglese, ha contatti con Pope e Swift («il Rabelais d’Inghilterra, ma un Rabelais senza fronzoli»), e con un suggeritore del Drury Lane va a vedere, col testo sottobraccio, Amleto, Otello, Macbeth, Giulio Cesare e Riccardo III.

Dai morality plays l’esempio
Al tempo, Shakespeare era noto solo in Inghilterra, e in versioni purgate che si piegavano ai precetti classici imposti dal gusto francese. Da ciò che resta Voltaire è comunque colpito. Non certo dalla sconcia mescolanza di tragico e comico, alto e basso, nobile e popolano, sublime e farsesco. Abituato alla purezza francese, essa gli appare barbarica, grossolana e primitiva – ignorando beatamente che quel mélange derivava dalla storia del teatro medievale autoctono (i morality plays) e da raffinate speculazioni rinascimentali, fondate su illustri fonti neoplatoniche e tardoantiche, che vedevano nel mixtum la premessa dell’Armonia e l’imitazione della coesistenza, nell’Uno originario, di tutti gli opposti. Voltaire è colpito dalla azione: il teatro di Shakespeare non è una conversazione rimata in cui la si racconta, come in Francia, ma un luogo dove l’azione, accoppiata a una recitazione espressiva, avviene davvero.

Per Voltaire è come vedere il teatro per la prima volta. Concepisce così il progetto di usare quel che di buono ne può tirar fuori per variare la monotona scena patria e ascendere al terzo trono della più alta forma d’arte mai raggiunta: la tragedia del Grand Siècle. Tornato in patria nel ’28 vi si accinge con prudenza: sfrontato nella pubblicistica, nella tragedia è timido come un plebeo in un palazzo. Comincia a usare modelli shakespeariani, ma corretti e aggiogati a regole poetiche che sono sentite come essenziali alla civiltà non meno di quelle politiche. Nei decenni successivi, il programma di estrarre da quelle «farse mostruose» qualcosa che giovi a sé e alla Francia prosegue con un certo successo. Nella Sémiramis del ’46, per esempio, introduce uno spettro a imitazione di Amleto – che pure, con le sue «volgari irregolarità», resta «una pièce grossolana e barbara, che non sarebbe tollerata dalla più vile populace francese o italiana». Ma ecco che dopo il fantasma la sua attrice preferita, Mlle Clairon, propone di portare sulla scena un patibolo. Voltaire inorridisce: è una richiesta disgustosa, nata dall’influsso della barbara moda inglese che rischia di «corrompere completamente la tragedia». Certo, il primo a introdurla era stato lui, «ma domandavo aqua no tempesta», si scusa in italiano. Forse non conosceva il nostro: «chi semina vento…».

Paragonato a Corneille!
Le tempeste, tuttavia, ormai incombono. Nel ’55 c’è lo tsunami di Lisbona, che ispirerà a Voltaire il capolavoro del ’59, Candide – un «mélange di ridicolo e di orrore» (parole sue al barone Grimm), e in quanto tale più simile a Shakespeare di qualsivoglia sua tragedia, con o senza spettri. Ma tre anni prima era iniziata la guerra dei 7 anni (la prima guerra mondiale, per Churchill) e il ’59, annus mirabilis per Voltaire, risulta terribilis per la Francia che, sconfitta dagli inglesi in America e in India, perde d’un colpo il Canada, Pondichéry e il dominio dei mari. Voltaire, sconvolto, comincia ad allarmarsi. L’anno prima Samuel Johnson aveva pubblicato il suo Dictionary of the English Language, compiendo da solo quello che l’Académie Française aveva fatto in 40 anni con 40 studiosi. Che l’ascesa dell’Inghilterra non fosse solo politico-militare?

Nel ’60 scrive a un amico inglese che non vuol litigare su Shakespeare: avrà del genio, ma è un diamante grezzo, e non lo si rappresenta che nell’isola. Quanto al suo stile, «io non saprei sopportare la mescolanza di tragico e di ridicolo, mi sembrerebbe mostruoso». Ma non era proprio quel mélange che dava e continua a dare vita al suo Candide? Voltaire ormai teme che Shakespeare possa diventare il veicolo di un’espansione intellettuale e si prepara a un Kulturkampf che lo impegnerà fino alla morte: «bisogna vincere gli inglesi, non imitare la loro barbara scena». In quello stesso anno avviene l’inaudito: nel «Journal encyclopédique» escono in traduzione degli scritti inglesi in cui Shakespeare viene paragonato a Corneille e ottiene la palma! La barbarie diventa pregio: mescolanze e impurità sarebbero una riproduzione della molteplicità del mondo, uno specchio della natura! E addirittura: «Shakespeare ha troppa genialità per assoggettarsi alle regole teatrali, alle quali Corneille si sarebbe meno asservito se fosse stato un grande genio».

«Si son presi Pondichéry» scrive a Mme du Deffand «e adesso osano pubblicare che il loro Shakespeare è infinitamente superiore a Corneille». D’ora in poi, à la guerre comme à la guerre, non parlerà più del presunto genio da lui stesso scoperto senza disprezzo, insulti e grossolanità.

Nel ’64, per fortificare la gloire tragica francese promuove una monumentale edizione di Corneille. «Certo», commenta, «è più facile pubblicare Corneille che allestire flotte. Eccoci più o meno al punto degli Italiani, non abbiamo che la gloria delle Belle Arti, e forse neppure più quella». Ma ecco che l’anno dopo Johnson se ne esce con un’edizione critica del corpus shakespeariano che è rimasta epocale. E nella Preface il pur classicista editor recide alla radice il pregiudizio purista che lo aveva avviluppato: «I drammi di Shakespeare non sono, in senso rigoroso e critico, né tragedie né commedie, bensì una composizione di genere distinto, che rappresentano lo stato reale della natura terrena…».

Shakespeare viene consegnato al mondo come poeta sovranazionale della natura universale. E après Johnson le deluge. Che viene dal Nord. Nel ’67 Lessing scrive che «anche secondo i modelli degli antichi Shakespeare è un poeta tragico molto più grande di Corneille, benché quest’ultimo conoscesse perfettamente gli antichi, mentre il primo quasi per niente». Nel ’71 il giovane Goethe legge un suo dramma e si sente un cieco miracolato: le unità imposte dai «signori delle regole» sono una prigione, e Voltaire è solo un Tersite che schernisce Sua Maestà. Per Herder, l’anno dopo, Voltaire è un «vecchio maldicente egocentrico» che non si vergogna di insultare un autore grande come Sofocle – e proprio perché non imita un presunto modello universale. Dalla Germania la critica si infiltra oltre confine. Nel ’74 Diderot osa asserire che la vera grandezza di Shakespeare non sta neppure nel sublime, ma proprio in ciò che massimamente indignava Voltaire: «il mélange straordinario, incomprensibile, inimitabile di cose di più gran gusto e di più cattivo gusto».

Quel che disse Napoleone
Voltaire combatterà fino alla morte, tormentato dalla consapevolezza che «per colmo di orrore e di disgrazia sono stato io, tempo fa, a parlare per primo di questo Shakespeare, a mostrare ai Francesi qualche perla che avevo trovato nel suo enorme letamaio». Ma la guerra era persa, e lo sapeva: «Ho visto finire il regno della ragione e del gusto … morirò lasciando la Francia barbara». La tragedia neoclassica avrà una sopravvivenza solo artificiale, sostenuta dalla politica, esaltata dalla Rivoluzione e da Napoleone. Ecco una frase dell’Imperatore, fortuitamente sfuggita alle ampie reti di questo bellissimo libro, che avrebbe al tempo stesso rincuorato e costernato il vecchio campione dell’egemonia francese: «Shakespeare da due secoli era stato dimenticato anche dai suoi conterranei, quando Voltaire, per lusingare gli Inglesi, si compiacque di nobilitarlo; da allora tutti ripetono che Shakespeare è il più grande drammaturgo del mondo. Io l’ho letto; nella sua opera non c’è nulla che possa stare alla pari con Corneille o Racine. È impossibile finire di leggere una delle sue opere senza un’alzata di spalle».