Voci filtrate dal condotto di ventilazione
Originario di White Sulphur Springs, una cittadina di poche anime nel nord del Montana, Ivan Doig ha trascorso buona parte della sua vita a Seattle, scegliendo la distanza e l’esilio […]
Originario di White Sulphur Springs, una cittadina di poche anime nel nord del Montana, Ivan Doig ha trascorso buona parte della sua vita a Seattle, scegliendo la distanza e l’esilio […]
Originario di White Sulphur Springs, una cittadina di poche anime nel nord del Montana, Ivan Doig ha trascorso buona parte della sua vita a Seattle, scegliendo la distanza e l’esilio per poter raccontare meglio la sua terra natia, tra distacco critico e nostalgica elegia. Dopo un memoir, This House of Sky, che era stato candidato al National Book Award, è approdato al romanzo oltre i quarant’anni, e ha raggiunto il massimo della fama con la cosiddetta McCaskill Trilogy, epopea western nella quale – attraverso le vicissitudini di una famiglia esemplare, i McCaskill appunto, seguita lungo un secolo di storia, dalla fine dell’Ottocento fino al 1989 – prende vita e forma Two Medicine, ovvero uno di quei luoghi immaginari che, nella loro capacità di sintetizzare mille occorrenze reali, diventano più veri del vero.
Il respiro lento e maestoso del narrare, l’attenzione costante al rapporto tra uomini e paesaggio, lo straordinario orecchio per il vernacolo e per l’americano parlato che riluce in dialoghi tra i più felici che la narrativa contemporanea possa vantare, hanno indotto la critica ad accostare quella di Doig a un’altra trilogia quasi coeva e salutata da un successo molto maggiore, anche italiano: la Trilogia della frontiera di Cormac McCarthy. Paragone tanto lusinghiero quanto sviante, se è vero che in Doig non si trova traccia dell’afflato quasi biblico e delle virate metafisiche che contraddistinguono la scrittura di McCarthy; assai più legittimo e motivato, per il ritmo compassato del racconto, il lirismo, il realismo elegiaco, sarebbe il paragone con quel Lonesome Dove di Larry McMurtry che, riproposto di recente ai lettori italiani da Einaudi in una nuova traduzione, rimane probabilmente il capolavoro della narrativa western contemporanea.
Il racconto del barista (traduzione, cura e postfazione di Nicola Manuppelli, Nutrimenti, pp. 474, euro 20,00) è il primo romanzo tradotto in Italia di Doig, questa voce, tra le più originali e potenti del western americano, che si è spenta nel 2015 dopo aver pubblicato tredici romanzi e due memoir. Ambientato quasi per intero nel 1960, durante il duello elettorale Nixon-Kennedy, nella cittadina di Gros Ventre, Montana, Il racconto del barista mostra una forza espressiva e una padronanza degli snodi narrativi che indicano la piena maturità dell’autore. Siamo di fronte, apparentemente, al più classico Bildungsroman: la voce narrante appartiene infatti a Rusty, un ragazzino di dodici anni che, nelle prime pagine del libro, vive in Arizona insieme alla zia paterna e a due cugini che lo bullizzano sistematicamente, e trascorre le sue giornate nella frenetica attesa delle visite del padre, Tom Harry, il quale gestisce un bar a Two Medicine e, abbandonato da sua moglie, non se l’è sentita di crescere un bambino da solo, in un ambiente popolato da adulti che tendono ad alzare il gomito e a non tenere troppo conto delle buone maniere.
In ascolto nel retrobottega
Per Rusty tutto cambia quando il padre, inopinatamente e per ragioni non del tutto chiare, cambia idea e lo riprende con sé: comincia così una vita nella quale la frequentazione della scuola è più che altro una parentesi, e il mondo vero, il luogo delle scoperte e delle avventure, si concentra quasi per intero nel retrobottega del Medicine Lodge, il bar che Tom Harry gestisce da una vita, amato dalla clientela per il suo senso di giustizia, la tolleranza, la tendenza a non esprimere giudizi sul prossimo e la prodigiosa capacità di ascoltare le persone, di raccoglierne gli sfoghi e placarne così le ansie e le ribellioni.
Padre e figlio occupano «la casa dietro il bar come un paio di scapoli incalliti, vagando da soli fra le pareti di quell’enorme e vecchio edificio, tranne nei momenti in cui si presentava la donna delle pulizie per spostare un po’ di polvere», ma la loro vera vita la trascorrono al Medicine Lodge: Tom servendo e ascoltando i clienti, e Rusty nel retrobottega del bar, dove sono ammucchiate centinaia di oggetti lasciati in pegno dai bevitori più incalliti, e che suo padre carica su una vecchia Packard e va a vendere in Canada, per raggranellare qualche soldo in più e assicurarsi la sopravvivenza.
Quasi come una radio magica
Non sono però gli oggetti ammucchiati un po’ ovunque, per quanto affascinanti, a trasformare il retrobottega del Two Medicine in un vero paradiso per Rusty e per la ragazzina, Zoe, che da compagna di giochi e avventure si trasformerà presto nel suo primo, grande amore: ancor più forte è il richiamo esercitato dal condotto di ventilazione, che porta sul retro del bar le voci degli avventori e il loro repertorio di storie, barzellette, lamentele, imprecazioni. «Dal lato del bar, il condotto di ventilazione in alto sulla parete posteriore non era nemmeno visibile fra le teste di animali imbalsamati, ma nel retrobottega quella stessa griglia metallica a listelli vicina alla scrivania era quasi come una radio magica alla quale potevo affacciarmi per vedere tutte le parole che sentivo prendere forma».
Ecco allora che, accanto a un romanzo di formazione tradizionale che ruota attorno ai topoi del genere e li sviluppa con calma, senza accelerazioni o svolte sbrigative – che si tratti della scoperta del passato paterno, della ricerca di una madre assente, del primo amore e del confronto con il mondo adulto –, ne prende forma un altro, ben più originale e affascinante, nel quale Rusty impara dal padre quel talento particolare che ha consentito a Tom Harry di divenire il depositario della memoria collettiva. «Lo so, lo so», dichiara Rusty, «il barista che ascolta i clienti è uno stereotipo, probabilmente fin dai tempi di Chaucer. Ma papà assolveva quel ruolo in modo così completo, durante gli anni che trascorsi dietro il condotto di ventilazione da spettatore appassionato e al tempo stesso segreto, che il Medicine Lodge fungeva da deposito del folklore della città più o meno come il retrobottega in cui si ammassavano tutti quegli oggetti dati in pegno». Se è vero che tutti, prima o poi, hanno una storia da raccontare, lo straccio di Tom Harry, sfregando «il bancone di fronte al cliente fino a farlo diventare lucido, pareva voler lasciare quel tratto di legno sgombro proprio per quell’opportunità».
Dalla somma di tutte le storie
Il racconto del barista cui si riferisce il titolo stesso del romanzo non è quindi la storia di Tom Harry e della sua vita tutta vissuta dietro un bancone, anche se Doig ce ne svelerà gradualmente gli eventi principali, ma la somma di tutte le storie che Tom ha raccolto: e che nella seconda parte del libro, grazie alla mediazione indispensabile dello stesso Tom, un folklorista che viene da Washington e che si chiama Delano in omaggio a Roosevelt raccoglierà e registrerà per i posteri. Il percorso di formazione di Rusty diviene così un’educazione all’arte dell’ascolto, e il ragazzino dai capelli rossi che dona al libro la sua voce si trasforma nell’autoritratto più compiuto di uno scrittore che del proprio infallibile orecchio ha fatto il fondamento stesso della sua arte.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento