Il Ritratto di Ungaretti, olio su tavola, cm 55×51, oggi alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, è del 1930. La Galleria acquistò il dipinto nel 1948 alla XXIV Biennale di Venezia, che dedicava a Scipione (Macerata 1904 – Arco 1933) una retrospettiva voluta da Carlo Cardazzo, Mario Mafai, Giuseppe Marchiori, C. L. Ragghianti, Lionello Venturi e introdotta da Corrado Maltese.
Il Ritratto di Ungaretti aveva a fianco il Ritratto della madre, sempre del 1930. Mancava l’Autoritratto, dello stesso anno, che nel 1941, proveniente dalla collezione di Margherita Caetani di Bassiano, sarebbe entrato nella stessa collezione di Ungaretti. Sono tre dipinti che, specchiandosi l’uno nell’altro, raccontano la vita di tre persone in una. Anche quella della madre di origine polacca, Emma Wlderk. Scipione, come Boccioni, ha disegnato più volte la madre. Quasi ossessiva la serie dei ritratti in cui misura ogni progresso espressivo in una dipendenza psicologica che è ricerca continua delle radici. È ancora Ungaretti a dare il la. Nel 1929, infatti, su «L’Italia Letteraria», appare manoscritta la poesia La madre che, secondo De Libero, Scipione ripeteva spesso, in particolare la strofa Per il tuo forte amore / mi sarà perdonata / la mia voglia inguaribile / d’illusorio peccare.
Rosso delle ferite, rosso gloria
Il magnetismo di Ungaretti (Porto sepolto è del 1916, Allegria di naufragi del 1919, L’allegria del 1931, Sentimento del tempo del 1933), il ghigno mefistofelico e lo sguardo sibillino e allucinato di cui parla Mafai, hanno fatto presa su Scipione fin da quella sera di dicembre del 1928 al Circolo di Roma (Palazzo Doria, piazza Grazioli 5), nella mostra indetta dal «Convegno di Roma», dove espone Contemplazione o Tramonto più un gruppo di disegni tra i quali l’Autoritratto, insieme a Ceracchini, Di Cocco, Frateili, Fondi, Mafai, Andrea Spadini e Vannuccini. La serata si concluderà a zonzo per Roma, ad evocarne la mitologia che provoca il sentimento del vuoto (da piazza del Popolo alle Terme di Diocleziano, al Campidoglio), con gli amici di una vita, seppur breve, che avrà per tutti (Libero De Libero, Leonardo Sinisgalli, Arnaldo Beccaria), al centro, il maestro Ungaretti, pronto a scrivere, anni dopo: «Incominciai a sentire Roma vicina al mio cuore quando capii che in Roma il Barocco ha origine da Michelangelo. Quando, capito il Barocco, Roma incominciò a diventarmi familiare, fu mediante l’avvicendarsi delle stagioni che incominciò a farmisi più vicina. Conobbi allora Scipione, e i rossi di porpora e i rossi in penombra, il rosso delle ferite e il rosso della passione, il rosso gloria, tutti i rossi nel rosso che il vecchio travertino e la torpida acqua del Tevere ingoiavano negli estivi tramonti di Roma».
Scipione, ponendo la figura umana al cuore dei suoi problemi, quindi ben prima di Bacon, da quel momento, e fino al 1932, disegnerà più volte, unico tra gli amici ai quali dedicherà ritratti e caricature, il volto de Il Poeta Ungaretti, del quale ha intuito l’esigenza di poesia e la capacità critica dell’epoca che esprime. L’analogia, che è il fulcro del mondo interiore di Ungaretti, lo stimola ad andare oltre, a mettere in contatto ciò che è remoto per generare la poesia. Il sistema analogico dichiarato de L’Allegria e «l’illuminazione favolosa» di cui parla Luciano Anceschi sono il sentimento del tempo, la parola poetica «una ferita di luce nel buio», «limpida meraviglia di un delirante fermento». Ricavare le immagini dalla coscienza, adottare la parola per creare immagini, fornire cultura agli artisti vicini: ecco l’impegno di Ungaretti che, nei suoi rapporti con Scipione, esalta ancora una volta la sua propensione verso i giovani che gli danno l’appiglio per chiarire sempre meglio il suo concetto di poesia. È Ungaretti («l’italiano più francofilo», come lui stesso scrive nel 1931 in una recensione a Maritain) a parlargli di Baudelaire e di Racine, di Mallarmé («che ha aperto ai moderni la strada di ogni iniziativa») e di Góngora, di Leopardi e del Greco, di de Chirico e Modigliani, di Parigi negli anni 1912-1915 e dopo il 1918, al ritorno dalla Grande guerra, a fargli comprendere le ragioni delle avanguardie, Apollinaire e i pittori cubisti, l’unità determinatasi nelle poetiche quali che fossero i linguaggi, a portarlo dal Marchese Visconti Venosta, nella casa alla Camilluccia, per le letture di poesie dello stesso Montale per il quale disegnerà la copertina di Ossi di seppia edito da Carabba nel 1931.
Con Ungaretti, Scipione amplia il suo orizzonte sugli scrittori contemporanei, puntualizza tematiche, partecipa a discorsi più aperti riguardanti l’arte. Il grande distillatore di parole che fanno esplodere sentimenti profondi diventa per Scipione suscitatore di immagini in piena luce che sottolineano il riferimento ironico, la suggestione cólta, la vena emotiva, un’eco di sottile e articolata di poesia che appartiene a un’idea nuova dell’Europa. È di matrice ungarettiana l’interesse di Scipione per il Seicento. L’immaginazione del Seicento, per Ungaretti, nasce dalla memoria. Il recupero della memoria attraverso la purezza, la ricerca di un «paese innocente», lo sdoppiamento tra gli spettri premeditati dalla mente e la realtà concreta che fu uno dei temi principali del Romanticismo.
Eredi dell’horror vacui barocco
La civiltà contemporanea, erede dell’horror vacui già determinatosi col Barocco (e che troviamo nelle attrazioni di Leonardo Sinisgalli), patisce un senso di saturazione determinato dal progresso scientifico di cui Leopardi e Baudelaire erano stati i tormentati testimoni. «La poesia è scoperta della condizione umana nella sua essenza, quella di essere uomo d’oggi ma anche un uomo favoloso, come un uomo dei tempi della cacciata dell’Eden», scrive Ungaretti. Una vocazione poetica di continuo fusa con la vocazione alla vita che Scipione esprime attraverso un segno che nella sua densità sviluppa un enorme potenziale emotivo, una visione psichica scheggiata, con varianti e pentimenti, improvvise illuminazioni, asprezze esasperate e brevità frante, in un »turbinio di fiocchi luminosi e voluttuosi».
Fondamentale, tuttavia, resta il collegamento che Ungaretti offre a Scipione tra l’ Apocalisse di S. Giovanni, al centro del lavoro del pittore alla ricerca del significato e del valore dei simboli e dei segni, e I canti di Maldoror. L’enigmatico Ducasse affascina Scipione che diventa immediatamente complice di Maldoror, partner di una furia demoniaca che si guarda di continuo nello specchio alla ricerca di identità, per sfuggire alla solitudine.
Scipione ritrova in Ducasse la coscienza della diversità. Riappare la figura bruciante dell’ermafrodito, l’imprevisto inaccettabile, l’«universo carcerario» ravvisato da Georges Bataille come libertà della fantasia e dello spirito. Solo che in Scipione sfugge al cerebralismo perché la sensualità «frenetica» vince sullo spazio metafisico ed estetico. Aspira, però, a scoprire «il luogo sotterraneo dove giace la verità addormentata», medesima è la rabbia di non veder rivelato «il segreto del nostro cencioso destino».
Il tono e lo stile di Lautréamont ammaliano Scipione. La tematica letteraria, le complesse espressioni simboliche e proiettive tese fino all’urlo, al sarcasmo, all’erotismo, al sadismo; le drammatizzazioni che esasperano la forma; la continua nostalgia della divinità; le incongruenze e le contraddizioni; le morbosità e la lucidità tessono una rete sottilissima in cui il pittore va a depositare la sua vocazione all’immediatezza, il suo lirismo, la sua irruenza, per affinare i riflessi già lucidi, oliare i meccanismi di difesa esercitati con l’ironia, riscontrare le letture fatte (Dante, Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, Barilli, Campana, William Blake, Saint-John Perse…), comprendere a fondo il Greco e la Roma del Borromini, rendere più sensibile l’universo dei segni senza «avvelenarne il candore».
Canti di Maldoror, densità animale
Scipione rintraccia ne I Canti di Maldoror, come già nell’Apocalisse, ciò che Gaston Bachelard ha chiamato densità animale: un ricco bestiario di cani, cavalli, lumache, lupi, tigri, granchi, pellicani, galli, vipere, serpenti, ragni, aquile, piovre, e pugnali e folgori, e il combattimento del drago con l’aquila, la meretrice dalle mammelle lascive, i pidocchi simili alle cavallette, ogni cosa carica di energia, di tentacoli, di movimenti che sollecitano memoria e fantasia esercitate sui libri, liberano l’incubo e la pulsione erotica, confermano le simbologie del peccato lette in Dürer e in Bosch, in Doré e in Rops, agiscono formalmente su un mondo di segni ancora una volta mediato dalla letteratura.
È lo stesso Ungaretti a scriverlo in una lettera a Leone Piccioni del 18 febbraio 1963: «Scipione aveva letto il Sentimento del tempo e mie traduzioni da Góngora, e alcuni miei articoli, che allora fecero chiasso, su Lautréamont, ecc. apparsi sulla “Fiera Letteraria”, e la sua pittura è nata, per l’ispirazione, come tante altre cose nell’arte italiana, da stimoli venuti da me, e da Barilli, ed essi lo condussero al Greco, Roma fu così vista surrealisticamente attraverso il Greco, con una forza sensuale da colosso e una disperazione da agonizzante, con l’incubo della morte in una vita che non si arrendeva».
Lo «schianto carnale che apre il volo a fiori di fuoco» di cui parla Ungaretti a proposito de I canti di Maldoror, la «lucidità cruda che per vertigine di irrisioni fa salire l’espressione all’infinito distacco del sogno» sono gli stessi che si condensano, al primo sguardo, nei ritratti che Scipione dedica alla «maestà tragica» del poeta e a se stesso, l’uno riflesso nell’altro, a scavare nelle proprie ossessioni.