La Biennale festeggia, con una mostra di foto e materiali documentari dal proprio Archivio storico (a Ca’ Giustinian fino a metà maggio), titolo Il carnevale squarcia la nebbia, i 90 anni di Maurizio Scaparro (li compirà a settembre prossimo) anticipando la ricorrenza, ma celebrandone nella sua data ideale quella che è stata la sua grande invenzione spettacolare: il Carnevale del teatro. Una festa, per gli occhi e per il cuore, che nel 1980 diede una chiave contemporanea con un richiamo praticamente planetario, alla tradizione antica di mascherarsi in questo periodo prequaresimale, un voler apparire altro da sé, che ha sempre corrisposto a un desiderio, sacrale quanto pagano, di potersi ciascuno rappresentare sotto (o dietro) l’identità fantasiosa della «maschera». Una tradizione antropologica, densa di significati fin dalle sue origini (e che nel teatro ha da sempre trovato fondamento), di cui Scaparro riportò in auge il carattere giocoso e sociale, sfidando in qualche modo proprio la «modernità» che andava a esplodere (ma «griffata», e quindi anch’essa mascherata) proprio in quegli anni 80.

SONO STATE stagioni indimenticabili, non solo per l’attrazione che l’iniziativa esercitò su centinaia di migliaia di persone, ma anche per la sociologia spicciola che ne derivò a profusione. Quello che è certo, e risulta ben chiaro a quarant’anni di distanza, è la grandezza di quell’intuizione. La Biennale teatro era cresciuta nei decenni precedenti, come festival internazionale grazie a Wladimiro Dorigo. Poi arrivarono le Biennali di Ronconi, negli anni 70, progetto scientifico ad ampio spettro e dai sorprendenti risultati (tutti segnati dalla scelta di Utopia, che fu del resto anche il titolo dello storico spettacolo del direttore).
Scaparro, nel 1980, colmò la cesura con il grande pubblico, compenetrando la Biennale con la cultura di massa (e con la massa delle culture) che erano emerse dopo il ’68, con la consapevolezza e il protagonismo di nuove generazioni e nuovi strati sociali. La tradizione del Carnevale sopravviveva a Venezia come espressione culturale di nicchia, una sorta di testimonianza di antiche e nobili usanze. L’intuizione (che oggi appare geniale) del regista fu di fare della vetrina culturale qualcosa che sposasse e coinvolgesse il pubblico potenziale di quegli stessi fenomeni (non a caso erano gli anni della Estate Romana dell’assessore Nicolini).

IL PROGETTO di Scaparro deflagrò in maniera quasi incontrollabile. Oltre ai veneziani, che a migliaia si attrezzarono con costumi e invenzioni che dall’humus goldoniano oltrepassavano la fantascienza, ci furono centinaia di migliaia di «turisti», mascarine e mascarete, che accorsero da tutto il pianeta. Per la prima volta (e poi negli anni a venire) si videro, come in un film di fantascienza, i vigili urbani che regolavano a senso unico alternato il traffico pedonale sugli augusti ponti e ponticelli veneziani. O altre immagini non meno indimenticabili: come quell’elefante in arrivo per una festa di teatro circo, che non passava con la sua zattera sotto i ponticelli di campo sant’Angelo….

IN COMPENSO c’era la sinergia di tutta la Biennale con tutte le altre istituzioni (per fare un esempio, alla Fenice lavorava già Cristiano Chiarot, ignaro futuro sovrintendente lirico di grande valore), dal Comune alle case editrici alle associazioni culturali. Una esperienza (quella di quei primi tre anni, cui ne seguiranno altri tre una ventina d’anni dopo), che è ben raffigurata dal Teatro del mondo, lo spazio galleggiante, e anche navigante, elaborato da Aldo Rossi (di cui portava il pinnacolo e i colori) che ospitò debutti e rappresentazioni (la compagnia primigenia di Luca De Fusco elaborò per l’inaugurazione un misterico percorso dedicato a Borges).
Ma è molto significativa, a rivederla oggi in mostra nelle belle fotorafie di Lorenzo Cappellini, la presenza contemporanea di artisti di diversissima quanto profonda poetica, uniti però in quel gioco carnevalesco: Giuliano Scabia e Dario Fo, Mimmo Cuticchio col teatro dei pupi e Mario Martone con le sue prime ricerche, Marcel Marceau in piena notte e una torma di scatenati Pulcinella napoletani. Una folla eterogenea di bei nomi e felici situazioni che oggi sarebbe impossibile mettere insieme (e non deve esser stato facile neanche allora).
Ma anche presenze, discrete, che nel ricordo prendono un valore incommensurabile. L’aver fatto colazione, per diverse mattine in hotel, al tavolino a fianco a quello di una anziana signora, col fazzoletto nero sempre annodato sotto il mento, soave e sorridente in quel cortese vicinato, per scoprirne solo l’ultimo giorno l’identità: era Marguerite Yourcenar, ospite di riguardo di Maurizio Scaparro. Che qualche anno dopo realizzò uno dei suoi spettacoli più affascinanti con le Memorie di Adriano, nella villa tiburtina che l’imperatore si era creato come personale oasi. Da quei carnevali veneziani molti sogni avrebbero preso corpo.
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