Il cancello della guest house della Zona Verde di Baghdad si apre, al di là sorge un palazzo di una decina di piani con un cortile interno. Dentro, i pavimenti in marmo grigio riflettono le luci dei lampadari in finto cristallo. Sulle pareti sono appesi dipinti moderni delle glorie del passato: la civiltà mesopotamica, la costruzione della ziggurat di Ur. Un bar in mogano affianca i divani in pelle bianca e una serie di vasi ad altezza d’uomo.

La guest house è il ritrovo di politici e amministratori del paese. Baghdad sembra lontanissima. Una parte della Zona Verde, istituita dopo l’invasione americana del 2003, è stata riaperta a tutti gli iracheni solo un paio d’anni fa. Era stata inaccessibile per quindici anni. Una sua porzione lo è ancora, ci arriva solo qualche razzo sparato ogni tanto da una qualche milizia sciita. Nel 2016 ci arrivarono i manifestanti accesi dai sermoni di Moqtada al-Sadr e dalla povertà.

Ex centro amministrativo del partito Baath, qui hanno sede i ministeri, il parlamento, l’ufficio del primo ministro. Ci si arriva passando checkpoint apparentemente senza fine: ce n’è uno ogni 3-400 metri. Al centro della strada e sui lati palme e sprazzi di verde quasi introvabili nel resto della capitale, e una sequela di carri armati, gli fanno la guardia soldati solitari. Sopra un piccolo arco c’è la riproduzione della Cupola della Roccia di Gerusalemme.

Per il resto, l’orizzonte è simile al resto della città: i volti del generale iraniano Soleimani e del capo delle Kataib Hezbollah al-Muhandis, uccisi in un raid trumpiano il 3 gennaio 2020, campeggiano a ogni angolo: «I nostri martiri», si legge in arabo e in inglese. Nel cuore del potere iracheno si celebra l’alleanza strategica con l’Iran e il ruolo delle milizie sciite, fondamentali nella lotta allo Stato islamico, ma per molti iracheni peso massimo che mina una vera indipendenza.

Hussein Hindawi ha una lunga storia alle spalle. Scrittore, poeta, esule durante il regime Baath (scappò a piedi in Kurdistan), ha lavorato per le Nazioni unite in Yemen e ad Haiti. Dopo la caduta di Saddam Hussein nel 2003, è stato presidente della Commissione elettorale e oggi è consigliere elettorale del premier Mustafa al-Kadhimi: «Siamo amici da tempo. Quando mi ha chiesto di affiancarlo, gli ho risposto che lo avrei fatto a patto che queste elezioni siano libere e trasparenti. Ho la sua parola».

L’Iraq voterà il 10 ottobre prossimo, elezioni anticipate dopo la protesta popolare lunga un anno che ha coinvolto la capitale e il sud a maggioranza sciita. Abbiamo discusso con Hindawi del presente e del futuro politico del paese.

Come si arriva a questo voto?

I manifestanti hanno chiesto anche elezioni e una nuova legge elettorale. In quelle piazze non c’era nostalgia di Saddam e del Baath, ma una mentalità democratica e consapevole delle ricchezze del paese e che si batte contro una corruzione divenuta enorme. La società è molto cambiata, il 60% della popolazione ha meno di 25 anni, non ha legami con l’ex regime e vive in condizioni economiche gravi. A questo si aggiunge una grande ricchezza etnica e religiosa: arabi, curdi, turkmeni, armeni, cristiani, sunniti, sciiti, ebrei.

Come vi state preparando alle elezioni?

La nuova legge elettorale è stata varata nell’ottobre 2020. In Iraq ci sono 25 milioni di aventi diritto al voto. La Commissione ha preparato un sistema biometrico per evitare brogli: si vota con impronta digitale e fotografia. I governatorati sono divisi in seggi tali da garantire un 25% di elette donne. Alle urne si presentano 44 liste e 3.500 candidati, ora siamo nella fase di verifica per escludere chi non rispetta le normative anti-corruzione e di de-baathificazione.

Hussein Hindawi

Può descriverci candidati ed elettori?

I partiti sono divisibili in tre gruppi: curdi, sunniti e sciiti. Tra quelli curdi i principali sono il Kdp e il Puk, legati ai clan Barzani e Talabani e ai rispettivi gruppi di peshmerga. I principali partiti sunniti sono cinque, sono radicati nell’ovest e non hanno proprie milizie, sono guidati da uomini d’affari con legami nel Golfo. E poi ci sono i partiti sciiti, alcuni fanno riferimento a milizie come l’organizzazione Badr e le Kataib Hezbollah, altri a uomini di potere come gli ex premier al-Maliki e Al-Abadi. Per quanto riguarda l’elettorato, un ruolo importante lo svolgono i manifestanti, concentrati nelle zone sciite, e che si dividono in due gruppi: quelli che boicotteranno il voto, per lo più la sinistra e movimenti che rispecchiano i cambiamenti di Baghdad degli ultimi cinque anni; e quelli che credono che attraverso il voto possano modificare la classe dirigente. Non cambiare il sistema, ma entrarci.

Dietro il boicottaggio c’è la richiesta di giustizia per gli attivisti uccisi in questi mesi e la fine della repressione.

I responsabili degli omicidi mirati sono gruppi paramilitari. La situazione della sicurezza è ancora molto fragile e sono a rischio soprattutto i candidati giovani. Ma il clima non è paragonabile a quello del 2005. All’epoca, quando ero a capo della Commissione elettorale, in alcune zone l’affluenza fu del 4%, c’era paura di votare perché i gruppi armati lo impedivano. Furono uccise centinaia di persone, di cui 80 dipendenti della Commissione.

Ma un problema esiste, gli attivisti vivono nella paura.

Il problema è l’assenza di forze democratiche e progressiste. Partiti laici, indipendenti e progressisti servirebbero al paese. Alcuni partiti sono nati dalla piazza, una decina delle 44 liste provengono dal movimento, ma sono divise. E ci sono partiti tradizionali, come quello di al-Maliki, che hanno creato «filiali» giovanili per assorbire questi ragazzi e togliergli al movimento. Io penso che dobbiamo dare tempo al movimento di crescere politicamente, sarà un bene per il paese.

Pensa che il sistema settario di potere sarà superato?

Il sistema iracheno è diverso da quello libanese. In Libano è stato imposto dai francesi con l’indipendenza, ha fondato il paese. Da noi non è così radicato. Oggi uno sciita non avrebbe problemi ad avere un premier sunnita. Serve modernità e serve valorizzare le ricchezze dell’Iraq. Quelle ricchezze mostrate da papa Francesco nella sua visita. La nazione irachena non è ancora del tutto nata, è proprio quello che vogliono i giovani: un’identità nazionale.