La ruota del processismo torna al punto di partenza. Due anni dopo le ultime elezioni catalane, a poco più di un mese da quelle imposte dal governo Rajoy il 21 dicembre, gli indipendentisti protagonisti del procés catalano ci riprovano. E tornano a proporre, proprio come nel 2015, in quelle che erano già state vendute come le elezioni «definitive» sull’indipendenza catalana, il listone. Un listone che oltre a Esquerra Republicana (Erc) e PdCat, che già si presentarono due anni fa assieme in Junts pel Sí, e ottennero 62 seggi su 135 (ben 9 in meno di quelli ottenuti separatamente nel 2012, ma sufficienti per essere il primo partito nel Parlament), dovrebbe includere gli anticapitalisti della Cup e spezzoni di Podem, la filiazione catalana di Podemos.

MA È UNA STORIA GIÀ VISTA. Nel 2015 la Cup non ne volle sapere di presentarsi in lista con il campione dei tagli allo stato sociale: allora infatti il PdCat (che si chiamava Convergència) era guidato da quell’Artur Mas che in una legislatura precedente aveva zelantemente aiutato il Pp nei tagli più radicali a tutti i settori del welfare. Per poi convertirsi all’indipendentismo, e finire per convocare il primo referendum non vincolante, o consulta, nel 2014 dove già più di 2 milioni di catalani si erano espressi a favore di una Catalogna indipendente. Nonostante la Cup in questa legislatura sia stata l’indispensabile stampella di Junts pel Sí, per ora non è chiaro se accetterà l’idea del listone o il riconoscimento implicito alle istituzioni spagnole che implica il partecipare a queste elezioni. Il dibattito è ancora in corso.

 

Marta Rovira(Erc)

Erc e Pdcat sembrano già convinti: gli uni perché dietro lo slogan «amnistia per i prigionieri politici, difesa delle istituzioni catalane» contano di poter incassare l’appoggio di altri settori della società catalana nella speranza di ottenere una maggioranza parlamentare più forte per tornare a cercare di imporre un’impossibile indipendenza; gli altri perché non hanno alternative, se non scomparire. Il PdCat non è mai stato forte fra le classi più popolari e ha perso la sua base sociale storica moderata, catalanista, borghese e poco propensa ad avventure. Tanto più dopo il salto in avanti della «dichiarazione d’indipendenza» (spacciata per vera pur non essendo mai stata formalmente votata). Rimane poi aperto il ruolo che giocherà l’ex ministro Santi Vila, del PdCat, delfino di Puigdemont e Mas, ma opportunisticamente dimessosi all’ultimo momento, il giorno prima del voto sull’articolo 155. È stato l’unico degli ex concellers della Generalitat finiti in prigione ad uscire immediatamente su cauzione.

IL CASO DI PODEM è ancora più complicato: lo scontro del segretario catalano Albano Dante Fachin con la direzione di Podemos in atto da mesi è esploso in questi giorni con lo pseudo-voto sulla pseudo-dichiarazione di indipendenza catalana. Fachin e altri due deputati del parlamento catalano (del gruppo Catalunya sí que es pot) non avevano manifestato, al contrario degli altri, il loro No. Ma soprattutto Fachin è contrario a convergere in Catalunya en comú, il partito fondato da Ada Colau, né per queste elezioni, né mai: e questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. E se nel fine settimana è in corso una consultazione fra i militanti catalani (pare scontato vinca il sì, se non altro perché Podemos ha già deciso per il sì), la settimana prossima ci sarà il redde rationem, e Podem verrà commissariata. È di questo clima di scontro che Erc e PdCat vogliono approfittare perché qualche profugo indipendentista di Podem si aggiunga al listone, di fatto fornendogli l’alibi di essere trasversale.

ANCHE I SOCIALISTI CATALANI, molto provati per l’appoggio del partito all’articolo 155, chiedono nuove alleanze. «Con il centro e con la sinistra», ha detto il segretario Miquel Iceta, che vorrebbe sganciarsi dalla scomoda alleanza di fatto con il Partido popular e Ciudadanos. Ma con mezzo governo catalano in carcere, difficile pensare che si possa rompere il fronte indipendentista.