Nel perfetto stile tragicomico dell’Egitto in transizione, l’annuncio che la piazza non si aspettava è arrivato tempestivo. I Fratelli musulmani hanno due giorni di tempo per rispondere alle richieste della protesta o la giunta militare trarrà le sue conclusioni e riprenderà il potere. Il messaggio televisivo ha prodotto una gioia immensa in piazza Tahrir e un boato di gioia come non si sentiva dalle dimissioni di Hosni Mubarak dell’11 febbraio 2011. E dal giorno della vittoria di Mohamed Morsi, il 30 giugno 2012, quando sembrava ancora viva la speranza.
Ma a Tahrir, che chiede al presidente Morsi di andarsene, oggi cosa si festeggia: il ritorno dei militari? La spirale in cui si sta avvolgendo l’intero paese comporta continui avanzamenti e arretramenti dietro le quinte dell’esercito. I militari non hanno mai lasciato il potere. Anzi proprio sull’ambigua relazione tra militari e politici si è retto l’Egitto post-coloniale. La rappresentazione storica e mediatica di dittatori senza uniforme, come separati dall’élite militare, ha nascosto l’evidenza del controllo dell’esercito sul processo di modernizzazione e formazione della classe media del paese. L’esercito del generale Tantawi, che pure ha governato l’Egitto dall’11 febbraio 2011 al 30 giugno 2012, non ha certo lesinato violenza, ha per esempio contribuito alle uccisioni di manifestanti come nell’eccidio di Maspero dell’ottobre 2011 e negli scontri di via Mohammed Mahmoud nel novembre dello stesso anno. La vera novità potrebbe venire se i militari rompessero la loro alleanza con la Fratellanza (sono abbastanza potenti per farlo). Un segnale in questo senso è arrivato con le pressioni esercitate sul leader carismatico e primo candidato alla presidenza Khairat al-Shater. Quindici guardie del corpo del businessmen sono state arrestate e colpi di armi da fuoco sono stati avvertiti nei pressi della sua abitazione.
L’unica forza politica capace di sostiursi a questo punto alla Fratellanza non sono le opposizioni laiche né i tamarrod, i ribelli che hanno raccolto milioni di firme per chiedere le dimissioni di Morsi. Ma i nazionalisti, stile Ahmed Shafiq o i tecnocrati, fedeli all’esercito. Ed ecco riprodotto il circolo vizioso che blocca il paese mentre elicotteri militari sorvolano piazza Tahrir sventolando bandiere egiziane.
La Fratellanza trema non solo per l’ultimatum dell’esercito ma per la violenza con cui la piazza ha attaccato le sedi del partito Libertà e giustizia: in particolare il quartier generale di Moqattam (dove ci sono gli uffici di Shater). Sette persone sarebbero morte (sedici in tutto dall’inizio degli scontri) nell’assedio del palazzo che è stato dato alle fiamme, mentre alcuni inservienti sono stati presi in ostaggio e linciati dalla folla.
In questo clima, la crisi politica si allarga. Quattro ministri hanno rassegnato le dimissioni irrevocabilmente. E una a una sono cadute teste di rilievo. Primo fra tutti il punto di connessione tra esercito e presidenza, il consigliere militare di Morsi, Sami Anan, che ha presentato le sue dimissioni in solidarietà con i manifestanti.
Anche gli attivisti della campagna tamarrod hanno lanciato il loro ultimatum. Entro le 17 di oggi Morsi dovrebbe presentare le sue dimissioni per evitare la continua occupazione dello spazio pubblico per la «Giornata del popolo». L’obiettivo è far convergere i cortei verso il palazzo di al-Qubba, dove si trova Morsi, che ha lasciato il palazzo di Ittidaheya, asseddiata anche per i festeggiamenti dopo l’ultimatum dell’esercito. Gli attivisti hanno già minacciato una campagna di disobbedienza civile qualora Morsi resti al potere e hanno ribadito il «no» al dialogo arrivato dal presidente. I giovani attivisti hanno inoltre denunciato l’incredibile numero di molestie avvenute in questi giorni in piazza: sarebbero oltre gli 46 stupri. Restano invece ancora bloccati ad Alessandria i cinque italiani della ong genovese Music for Peace, diretti a Gaza. «Avevamo tutti i permessi in regola. Guidavamo una carovana con una mercedes e sei container, in uno dei quali erano contenute 120 tonnellate di materiale», spiega Stefano Rebora, responsabile del gruppo che, per la quinta volta dall’operazione Piombo fuso, raggiunge Gaza. Questo episodio rivela la totale assenza di sicurezza nel Sinai e il precario controllo delle forze di polizia nell’area. «L’ipotesi più plausibile è che la polizia – prosegue Rebora – non sia stata in grado di formire la scorta minima: un poliziotto per ogni convoglio. Per questo hanno addotto dei motivi burocratici e ci hanno chiesto di rivolgerci alle autorità diplomatiche». Non è la prima volta che il convoglio (carico di medicinali e cibo) subisce intimidazioni, nel 2010 sono rimasti bloccati 31 giorni al valico di Rafah. Tra colpi di scena e mesi di stallo, la presidenza Morsi comincia a traballare.