Molte ipotesi stanno circolando sulla versione fornita dai vari John Bolton, Mike Pompeo ed Elliott Abrams secondo cui i vertici delle forze armate – a cominciare dal ministro della Difesa Vladimir Padrino – sarebbero stati d’accordo nel deporre Maduro e poi si sarebbero rimangiati la parola. Ma che sia pura invenzione, o sia avvenuto proprio così, o, al contrario, qualcuno abbia voluto far credere che ci fosse il via libera dei militari per tendere una trappola all’opposizione, è evidente come tale versione si proponga di seminare il sospetto e intaccare la fiducia di Maduro nei suoi più stretti collaboratori.

A un certo punto, ha affermato Abrams riferendosi a «molti esponenti di punta» del governo, «hanno spento i cellulari», ma c’era già pronto un documento che prevedeva «un’uscita onorevole per Maduro e il riconoscimento di Juan Guaidó come presidente ad interim».

«SE IO FOSSI MADURO – ha detto – mi chiederei se ci sia ancora qualcuno di leale tra i vertici militari». E ancora più diretto è stato il senatore Marco Rubio, sempre in prima fila nelle aggressioni al governo bolivariano: «Maduro è circondato da cospiratori pronti a rompere in qualsiasi momento».

Che contatti vi siano stati – ma con esito ben diverso da quello riportato dall’amministrazione Trump – lo ha confermato lo stesso Padrino, riferendo come alcuni portavoce del governo Usa avessero cercato di indurlo a tradire il presidente e il popolo venezuelano. «Mi suscita una profonda indignazione – ha dichiarato in occasione della significativa marcia militare svoltasi il 2 maggio nella base di Fuerte Tiuna alla presenza di Maduro – il fatto che «tentino di comprarmi con un’offerta ingannevole, stupida, ridicola», come «se fossimo mercenari».

E ANCORA: «STANNO CERCANDO il modo di farci scontrare, ma non siamo qui per autodistruggerci, bensì per difendere la patria».

Nonostante la riaffermazione da parte di Padrino della piena fedeltà della forza armata bolivariana a Maduro e l’immagine di unità e compattezza trasmessa dal raduno di 7 mila soldati a Fuerte Tiuna, sul tasto delle divisioni interne all’esercito ha voluto però insistere anche la star del momento, il coordinatore del partito Voluntad Popular Leopoldo López. Liberato dalla prigione domiciliare in cui stava scontando una condanna a 13 anni dai soldati fedeli a Juan Guaidò e poi, dopo il fallito tentativo di golpe, rifugiatosi nella residenza dell’ambasciatore spagnolo, il leader di estrema destra (raggiunto il 2 maggio da un mandato di cattura) ha sostenuto di essersi riunito varie volte, nelle ultime tre settimane, con comandanti e generali della Fanb e della polizia.

«ABBIAMO DISCUSSO e analizzato la situazione. E ci siamo impegnati a mettere fine all’usurpazione», ha assicurato López, evidenziando come «l’insurrezione» del 30 aprile abbia aperto «una crepa» che finirà «per rompere la diga». E, con un annuncio in perfetto stile Guaidó, ha garantito che il processo «è irrevocabile» e che, malgrado «l’errore di calcolo» di martedì, tutto si concluderà «nel giro di qualche settimana». Il suo protagonismo politico, tuttavia, rischia di finire qui: come ha dichiarato il ministro degli Esteri spagnolo Josep Borrell, la sede diplomatica a Caracas non diventerà «un centro per fare attivismo politico».