Viene in mente quel che scriveva Vittorio Foa in quel bellissimo libro composto insieme a Miriam Mafai e Alfredo Reichlin, Il silenzio dei comunisti – ogni tanto bisogna proprio rileggerlo, per ragioni di salute. Erano tanti, milioni in tutto il mondo, gli uomini e le donne che si dicevano comunisti, ora stanno in silenzio e il loro passato è cancellato nella memoria. Chissà se anche Antonio Latella sente acutamente, come un’ossessione, il silenzio del teatro. E con esso l’oscurarsi di un pezzo della nostra storia, individuale e collettiva, ancora così vitale fino a qualche decennio fa. Scomparso dai grandi mezzi di comunicazione, sembra farsi sempre meno presente nella coscienza collettiva. Il teatro italiano contemporaneo si vede poco in patria e quasi per nulla all’estero, soprattutto nel circuito italiano ufficiale non ci sono giovani – osserva il direttore artistico del settore teatro della Biennale di Venezia, in apertura del corposo catalogo della quarantottesima edizione del festival che si apre lunedì prossimo. Ci sono, i giovani teatranti italiani? Dove si nascondono?

Nascondere, nascosto. Il termine è coniugato in diversi modi nel suddetto catalogone ma sempre cancellato dalla stampa in un colore impalpabile. E tuttavia proprio per questo reso più visibile come la scritta invincibile, capace di riemergere dopo ogni tentativo di cancellatura, di cui diceva una poesia del povero Bertolt Brecht venuto nelle città d’asfalto dai boschi neri. Il tema del nascondere (e del nascondersi) è diventato l’asse portante di quella che resta comunque la più importante manifestazione dell’estate teatrale. Come già evidenzia il titolo che le si è voluto dare, Nascondi(no), con quell’evitabile e un po’ goffo tentativo di portare in luce la (auspicata) negazione. Chiamando gli artisti invitati a confrontarsi sulle forme di una censura non più basata come un tempo sui divieti polizieschi quanto sul celare, sul silenzio appunto, sulle leggi di mercato e di circuitazione degli spettacoli, che vuol poi dire sovente sull’autocensura. Ha chiesto Latella, ai più giovani soprattutto (la grande maggioranza), di sentirsi completamente liberi nelle loro proposte. Un unico vincolo: che fossero tutti debutti, progetti nuovi. Il silenzio del teatro non si rompe così ma resta un bel segnale.

Giunto al quarto atto del suo mandato, il regista napoletano ha immaginato una sorta di Padiglione Italia del teatro (la definizione è sua), una grande esposizione del teatro italiano. Ma in una linea di continuità assoluta con quella tenuta per le tre edizioni precedenti, dedicate rispettivamente a esplorare le forme attuali di regia, arte performativa e drammaturgia. Ripercorrendo dunque l’impostazione riepilogativa scelta dalla direzione di Franco Quadri negli anni ottanta del secolo scorso, allora a consuntivo di un ventennio e più di «nuovo teatro», ma allo stesso tempo minando dall’interno per dir così quella stessa impostazione antologica, a forza di scelte eccentriche, volutamente minoritarie. Andare a scovare realtà nascoste al pubblico, anche a quello più addentro ai lavori. Come la scelta, nella sua prima stagione veneziana, di schierare per la regia una formazione tutta femminile, cioè di rovesciare il luogo comune durato troppo a lungo che la regia teatrale (salvo le eccezioni che sempre devono esserci per confermare la norma) sia in fondo una faccenda maschile.

(Piuttosto la volontà dichiarata da Latella di portare alla luce artisti «di nicchia» che lavorano nel circuito definito off, dice molto del cambio di prospettiva che il silenzio del teatro ha prodotto, giacché proprio l’agire al di fuori degli spazi consacrati, le famose «cantine» e non solo, durante la belle époque del «nuovo teatro», a cavallo degli anni sessanta e settanta, era quasi un marchio di garanzia e dunque si correva lì più volentieri che nei grandi teatri ancora attardati con gli spettacoli «di prosa»).

Lo conferma anche la scelta dei leoni d’oro e d’argento, i due premi attribuiti ogni anno dal festival. Mai scontata. In questa edizione vanno a Franco Visioli e Alessio Maria Romano. Un affermatissimo sound designer, il primo, ha affiancato il lavoro di Thierry Salmon e Massimo Castri negli ultimi decenni del 900, per dire due nomi capitali nel nostro passato prossimo, e più di recente lo stesso Latella; un creatore di movimenti scenici, il secondo, lui pure con un bel book di collaborazioni importanti. Qui si presentano però entrambi in veste di autori, cioè registi drammaturghi coreografi dei propri lavori, come a rivelare un altro nascondimento, una vocazione che qui e ora può finalmente esprimersi appieno.

Non ha bisogno di presentazioni il rito sonoro di Mariangela Gualtieri, Voce che apre, letteralmente, il festival. Segnato dall’irruzione micidiale del presente. Sarà un Requiem dedicato ai morti, ai corpi andati via in solitudine, dice la poetessa romagnola che ha ridato alla parola teatrale il mistero che stava alle spalle dell’antica tragedia, ma anche un tentativo di essere vicini ai vivi che hanno patito quel congedo. Costruire un percorso di sguardi all’interno del programma proposto è invece, comprensibilmente, complicato, si presta cioè a facili obiezioni. E non solo perché qualsiasi scelta, per quanto dichiaratamente personale, riporta inevitabilmente a quell’idea di censura che si è voluto mettere alla porta. O perché molti dei nomi che leggiamo sono appunto anche a noi poco familiari, a parte i non pochi che appartengono all’inner circle di Latella, e dovremmo allora giustificare cosa suscita la curiosità con cui li accogliamo.

È che nel frattempo, nel tempo intercorso dal momento del progetto, è capitato quel che sappiamo bene. E le arti sceniche, quelle che hanno nella presenza la loro stessa ragione, ne hanno ovviamente sofferto più di tutte. Aggravando il silenzio del teatro. Metti La tragedia è finita, Platonov, riscrittura della giovanile «commedia senza titolo» di Cechov messa in campo a Venezia da Liv Ferracchiati. Come farà Platonov senza poter baciare le donne? si chiedeva solo qualche mese fa l’autore e regista, prima di un’estate fin troppo rassicurante. Bella domanda, una domanda-metafora si potrebbe dire della situazione della scena, nel senso proprio di chi sulla scena ci deve stare (ché gli spettatori basta distanziarli un po’, come già si è sperimentato). Aspettando di vedere la risposta, piace che Ferracchiati abbia voglia di confrontarsi con un testo enigmatico, che apre altre domande, lasciandosi almeno temporaneamente alle spalle il successo di quella sua trilogia sull’identità che rischiava di inchiodarlo nel recinto del gender.

In altri casi il tema della censura è coniugato in maniera palese in rapporto alla fonte letteraria di partenza. Ecco allora About Lolita dell’ensemble Biancofango guidato da Francesca Macrì e Andrea Trapani, un titolo che riporta inevitabilmente al romanzo di Nabokov per inoltrarsi da lì nei territori proibiti del piacere e del desiderio, dove si fronteggiano pericolosamente l’immaginato e l’agito. Oppure lo scandaloso Baudelaire dei Fiori del male che ispira Eh! Eh! Eh! Raccapriccio del duo Astorri Tintinelli che si immagina uno spettacolo che abbia«“un’aura luciferina». Un passo oltre c’è lo scellerato marchese de Sade di cui Fabio Condemi, regista poco più che trentenne che ha trovato casa al teatro India di Roma, ha scelto di portare sulla scena La filosofia nel boudoir, sorta di estremo manuale di educazione erotica delle fanciulle capace di cancellare (e qui sta forse il vero effetto censorio) ogni velleità sensuale. Per arrivare a un vero e proprio paradigma della censura più ottusa quale fu quella che nel 1975 si abbatté su I rifiuti, la città e la morte di Fassbinder, bollato da una preventiva accusa di antisemitismo per la presenza di un personaggio definito «il ricco ebreo», dovettero passare più di trent’anni perché il testo potesse essere messo in scena in Germania. Giovanni Ortoleva, altro regista giovanissimo (nemmeno trentenne, ha debuttato due anni proprio qui alla Biennale teatro), parla dell’addentrarsi in una zona oscura e ci sembra un buon proposito.

Poi ci sono naturalmente anche nomi più conosciuti all’interno del programma, da Babilonia Teatri ovvero Enrico Castellani e Valeria Raimondi, che hanno preferito cancellare lo spettacolo immaginato, per non dover sottostare a regole incompatibili con il loro progetto, e sostituirlo in segno di lutto con uno spazio vuoto, a Jacopo Gassmann che, oltre che regista non estraneo al teatro istituzionale, è traduttore di testi teatrali e si presenta infatti con un testo, Niente di me, del norvegese Arne Lygre di cui poco sappiamo; dal teatro di narrazione di Giuliana Musso che in Dentro affronta «una storia vera, se volete» di abusi e silenzi e rifiuti di sapere la verità, quando la verità è chiusa dentro i corpi, a Leonardo Lidi (che invece non ha cambiato nulla, dice, per non darla vinta alla pandemia), di nuovo un regista poco più che trentenne rivelatosi alla Biennale teatro con una versione assai personale degli Spettri ibseniani e ora alla prese con un’altra sfida temeraria, La città morta di D’Annunzio.