Valibona è un casolare con un fienile accanto, come se ne vedono mille sparsi per la Toscana. Un puntino sperduto in mezzo alla Calvana, contrafforte montuoso al confine tra l’Appennino pistoiese ed il Mugello, a far da guardia alla valle del Bisenzio. Ancora oggi si dura fatica ad arrivarci, la querceta tutta attorno via via si mangia pezzi di viottolo. Ma se c’è da fare funghi, o asparagi, si va. E ne vale la pena, arrivarci, che lo spiazzo che sovrasta il casolare pare un palcoscenico messo lì per godersi le stelle, e le montagne.

 

 

 

UNO SCENARIO che non si meritava di esser teatro di ciò che lì successe ai primi di gennaio del ’44. Lassù in cima si era nascosta, dopo l’8 settembre, la banda partigiana di Lanciotto Ballerini, macellaio di Campi Bisenzio che combatteva sotto le insegne di Giustizia e Libertà. Assieme a lui Andrej il russo, fatto prigioniero dai tedeschi a Stalingrado e spedito in Italia per il lavoro coatto lungo la linea gotica, e un’altra dozzina di fuggiaschi combattenti antifascisti. La voce si era sparsa, ed i repubblichini di Vaiano organizzarono la retata. Fu battaglia vera, con morti da tutte e due le parti, e sopravvissuti per miracolo. Non sopravvisse Andrej, il russo ferito e poi seviziato col coltello da uno dei fratelli Bardazzi, i capi del fascio locale. Né sopravvisse Lanciotto Ballerini.

 

SOPRAVVISSE INVECE tra le camicie nere Fiorenzo Magni, che già si era messo in luce per via delle corse in bicicletta prima della guerra. E che nel ’48 si rimetterà su strada, vincendo tre giri d’Italia e tre giri delle Fiandre (consecutivi). Il Leone delle Fiandre sarà di lì in avanti Magni, a suggello di un’impresa che a nessun altro è mai riuscita. Tom Boonen, per dire, uno che a casa sua è più di una rockstar, ha vinto sì tre volte, ma non di fila. Per capire del resto cos’è per i fiamminghi la Ronde (come chiamano nella loro lingua la corsa di casa), basti pensare che i nazisti, occupando quei luoghi, non si sono mai permessi di interromperne la celebrazione, neppure in piena seconda guerra mondiale. Se la settimana della Ronde la chiamano «la settimana santa» dei fiamminghi, Rick Van Steembergen è il suo profeta, ma pure il grande Rik si è fermato a due vittorie; come pure Merckx, non uno qualsiasi. Fiorenzo Magni da Vaiano tre, e tutte e tre consecutive. Pare facile a dirsi, ma tra il ’49 e il ’51, quando si impose lui, non era facile nemmeno arrivarci, nelle Fiandre, per un corridore italiano, né trovarci da dormire.

SOTTO PROCESSO per Valibona, e per le retate di dissidenti nel pratese, l’immediato dopoguerra Magni lo visse da latitante, finché l’amnistia e un’assoluzione fortunosa non lo rimisero in pista. Mai ufficialmente pentito, Magni intendeva, più che redimere il proprio passato, farlo dimenticare. Nascondere la camicia nera sotto la maglia rosa. Bene o male ci riuscì, anche per i buoni uffici di colleghi ciclisti che la Resistenza l’avevano vissuta dall’altra parte della barricata, come il Comandante gappista Alfredo Martini, da Sesto Fiorentino, che sarà poi splendido gregario di Coppi e indimenticato ct delle più belle nazionali azzurre di ciclismo.

LA SUA CITTÀ, però, la memoria di Magni non l’ha mai gradita. E infatti, a Prato, dopo la Liberazione, il Leone delle Fiandre non è più tornato, se non per qualche tappa del Giro o qualche altra corsa in bicicletta. Ne fece le spese, di questa indisponibilità di Prato a digerire la memoria di un suo figlio famoso, ma proprio per questo più colpevole per il suo tradimento, anche un sindaco comunista, Alfredo Menichini. Alla vittoria di Magni al Giro del ’48 il sindaco rispose con un telegramma di felicitazioni, che inasprì la rottura già in atto con l’ala più dura del Partito. Di lì a poco le dimissioni, e l’abbandono della vita pubblica di questa singolare figura di impresario comunista.

Erano forse i fantasmi che lo inseguivano a spingere Magni in bicicletta: il meno giovane vincitore di un Giro d’Italia (1955) tenacemente battagliava, sempre al limite della correttezza, tra spinte in salita (dove Coppi e Bartali lo sovrastavano) e patti stipulati in corsa e poi non mantenuti. Con una forza e un coraggio al limite della ferocia, quella forza che lo vide avere la meglio, solo assieme a Charly Gaul, sulla tregenda del Bondone del ’56; o mordere un tubolare su per il San Luca a smorzare il dolore di una gara corsa con la clavicola rotta.

IL TOUR NON LO VINSE MAI, anche se il ’50 avrebbe potuto essere l’anno buono, quando Bartali impose il ritiro a tutta la compagnia italiana con Magni in maglia gialla: perché i francesi incazzati ed eccitati dalla campagna della stampa contro i macaronì lo minacciavano, con tanto di Citroen nera che parve andargli addosso sulle rampe dell’Aspin, la versione di Gino.

Perché non ce l’avrebbe fatta comunque, e siccome non vinceva lui andammo tutti a casa, ha sempre pensato Fiorenzo. Vinse, si diceva, il Giro, ma con l’onta dei fischi dei coppiani e degli antifascisti al Vigorelli. Magni il Terzo Uomo, dunque, così chiamato con metafora tratta dall’Italia contadina per sottolinearne la subalternità, culturale prima ancora che sportiva, a Gino e Fausto.

A Valibona, nel frattempo, il tempo sembra non essere passato. Sul sentiero che, disegnando un’ansa attorno al fienile, si allunga in mezzo al bosco, una stele ricorda Lanciotto Ballerini e i martiri della guerra partigiana. Dallo spiazzo su di sopra ancora si vedono le stelle.