Nell’aula del senato, a Washington, nella notte di mercoledì è naufragato il tentativo di riforma elettorale dell’amministrazione Biden, che prevedeva il ripristino di parti del Voting Rights Act del 1965 annullate negli ultimi anni dalla Corte suprema – processo di cui si sono serviti 19 stati Gop per comprimere il diritto di voto. Dopo ore di dibattito, per la quinta volta il progetto di legge si è incagliato lungo le linee di partito (50 contro 50). Ma quando il leader della maggioranza dem al senato Chuck Schumer ha proposto una procedura per annullare per questa votazione il filibuster – la regola che prevede una maggioranza qualificata di 60 voti per far passare una legge al Senato – è arrivata l’annunciata defezione dei due senatori dem Kyrsten Sinema e Joe Manchin (l’uomo che ha “preso in ostaggio” anche l’ambizioso piano di spesa sociale democratico). Annullare il filibuster, benché una tantum, per i due senatori applauditi dal Gop significherebbe inasprire le divisioni che lacerano il Paese e infliggere un colpo alla minoranza al Congresso di cui tutti un giorno potrebbero fare le spese. A pagare restano così solo le comunità più svantaggiate, fra cui quelle afroamericane e latine, maggiormente colpite dalle limitazioni al diritto di voto che i repubblicani spacciano per argini alle frodi elettorali.

Una buona notizia al Congresso arriva però inaspettatamente dalla Corte suprema, che ieri ha negato il ricorso dei legali di Trump contro la richiesta della commissione d’indagine della Camera sul 6 gennaio di prendere visione dei documenti della Casa bianca di quel giorno – fra cui le chiamate di Trump, la bozza di un ordine esecutivo sull’«integrità elettorale» e quella di un discorso dell’ex presidente da tenere il 6 gennaio alla manifestazione che ha preceduto l’assalto a Capitol Hill. Poche ore dopo i documenti sono stati recapitati alla commissione, che ieri ha anche chiesto di sentire la figlia di Trump, Ivanka.