Ci vollero cinquantacinque minuti prima che Flora riuscisse a convincere suo marito ad andare alla sala giochi, solo per vedere com’era. Li impiegò quasi tutti a fargli capire che non c’era niente di immorale a guardare la gente che giocava.

Nei pochi intervalli dovette sorbirsi la sua opinione personale sulla miserevole debolezza dell’uomo che getta via il denaro con i dadi, le carte, le macchine. Alla fine, Franklin si lasciò convincere a infilare la giacca da funzionario e ad accompagnare Flora nella parte centrale dell’albergo e quindi nella principale sala giochi.

«Questo posto ha un fascino incredibile!». Lui la guardò con gli occhi da pesce lesso, poi allicciò il naso. «Fascino. Flora? Mi sorprendi. Tu lo sai come la penso, sul gioco». Flora sorrise. «Certo, ma qui è diverso, Franklin…» «Non è diverso, né morale. Il gioco è gioco! È la tua vacanza, Flora, ma io debbo ripeterti, in tutta coscienza, ciò che ti ho detto sempre… che è un tragico spreco di tempo. Mi senti, Flora? Un tragico spreco di tempo!»

Flora si allontanò da Franklin e si diresse verso le slot machine che occupavano un’intera parete della sala. Flora aveva preso un nichelino dalla borsa finché lei non lo infilò dentro una delle macchine. Flora stava per abbassare la leva quando notò che Franklin la stava fissando. Arrossì, si costrinse a sorridere, poi lo guardò con aria supplichevole. «Franklin, è… è solo una macchina dove si mettono delle monete, caro… Ormai la moneta è dentro». Franklin emise un profondo sospiro di rassegnazione e guardò il soffitto. «Va bene» disse. «Gettala via. Tira quella dannata leva. Tirala e getta via quella moneta». «A quanto pare non sono molto fortunata» disse Flora con un filo di voce. Suo marito non rispose.

* * *

Stava per aprire la porta quando un ubriaco accanto a una delle macchinette si voltò e lo vide. L’ubriaco afferrò Franklin e lo sospinse verso la macchina. Franklin si ritrasse come se fosse a contatto con qualcosa di infetto, ma l’ubriaco lo tenne fermo con una mano, il bicchiere nell’altra.

«Vieni qui, vecchio mio» disse l’ubriaco. «Provaci tu». Posò il bicchiere e prese un dollaro d’argento dalla tasca. «Ecco, te lo regalo. Giocalo tu».

Una donna accanto al bar fece degli ampi gesti nella loro direzione. «Charlie – gridò – vieni tu qui o devo venire io a prenderti?» «Arrivo, tesoro, arrivo» rispose l’ubriaco. Sorrise a Franklin, ruttandogli in faccia una zaffata di whiskey, gli diede una pacca sulla spalla e poi guidò la sua mano, che stringeva sempre il dollaro d’argento, verso la fessura in cima alla macchina. Franklin sembrava un animaletto preso in trappola. Imbarazzato, turbato, spaventato, guardò freneticamente a destra e a sinistra, in cerca d’aiuto. Franklin fissò la macchina con espressione torva. Il suo primo pensiero fu quello di prendersi il dollaro senza giocarlo. Studiò attentamente la macchina. Era come tutte le altre. Grossa, piena di luci vistose, con in mezzo uno scomparto protetto da un vetro che rivelava nel suo ventre metallico un numero incredibile di dollari d’argento.

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Due luci proprio sopra lo scomparto somigliavano stranamente a un paio d’occhi, mentre la fessura in basso sembrava completare l’immagine di una mostruosa faccia al neon. Franklin sollevò la mano destra verso la leva. Da sopra la spalla vide che Flora sorrideva, speranzosa. Poi, quasi stesse prendendo la decisione della vita, tirò giù la leva con decisione, osservò le rotelle che giravano e che si fermavano una dopo l’altra, mostrando due ciliegie e un limone. Si sentì un forte ciac metallico, poi il suono delle monete mentre scivolavano nel contenitore in basso: dieci monete in tutto. Franklin sentì appena la risatina eccitata di Flora. Abbassò lo sguardo sulle monete e lentamente, una dopo l’altra, le raccolse. Una strana, calda sensazione gli scorreva dentro, una strana eccitazione che non aveva mai provato prima. Notò la sua immagine riflessa sulla fascia cromata della macchina e si stupì di ciò che ride: un riso piccolo, arrossato, con gli occhi accesi, i muscoli delle guance che si torcevano, le labbra piegate in un sorriso appena accennato.

«Oh, Franklin, tu sì che sei fortunato!» Guardò Flora, cercando di ricostruirsi una severità nel volto e nel tono della voce mentre stringeva nel palmo della mano le dieci monete.

«Adesso, Flora, vedrai la differenza fra un uomo normale, maturo, riflessivo, e questo branco di idioti qui attorno. Noi prenderemo queste monete, le terremo nella nostra stanza e le riporteremo a casa con noi». Si voltò verso la porta senza aspettarla. Ma Franklin sentì il rumore delle monete che cadevano nel contenitore. Girò su se stesso, sbalordito. Aveva sentito il rumore delle monete, certo, ma aveva sentito anche qualcos’altro. Aveva sentito distintamente il suo nome, pronunciato in modo metallico, stridente e deformato.. ma era senza dubbio il suo nome. Le monete erano atterrate nel contenitore e lo avevano chiamato: «Franklin.» Si grattò nervosamente la mandibola e si girò verso Flora.

«Hai detto qualcosa?» le domandò. «Che cosa, caro?» «Mi hai chiamato per nome, Flora?» «No di certo, caro.» Franklin tornò a fissare la macchinetta, perplesso. L’ubriaco se ne stava tornando verso il bar, e davanti alla macchina non c’era nessuno.

«Avrei giurato…» cominciò Franklin. Poi scosse la testa, ma studiò la macchina per qualche altro secondo.

* * *

Mentre tornava verso la loro camera Franklin ripensò a quell’esperienza di una macchina che lo chiamava per nome. Era ridicolo, naturalmente, si disse.
Cenarono. Alle dieci erano a letto. Flora si era addormentata quasi subito, come faceva sempre. Franklin, invece, rimase con le mani dietro la testa a fissare il soffitto. Accanto alla porta c’era una piccola lampadina notturna che emanava un leggero bagliore arancione per tutta la stanza. I dollari d’argento erano ordinatamente impilati sulla credenza davanti allo specchio. Di tanto in tanto gli occhi di Franklin si abbassavano per scrutare dai piedi del letto il mucchietto di monete. Si era già assopito e stava per prendere sonno, quando sentì di nuovo quel suono. «Franklin!» Erano monete che cadevano nel contenitore e lo chiamavano per nome.

Scese dal letto e andò alla credenza. Raccolse le monete e le soppesò sul palmo della mano. Era una sensazione piacevole, quella dell’ argento sulla pelle. Flora si svegliò all’improvviso. «Qualche problema, caro?» gli chiese. «Questi sono soldi sporchi, Flora. Assolutamente immorali. Non può venire niente di buono da soldi vinti in questo modo. Adesso torno giù e li rimetto nella macchina. Me ne voglio liberare.»

Tre ore più tardi Franklin era accanto alla macchina, con la cravatta allentata, la camicia sbottonata, la giacca aperta. Non si rendeva conto del passare del tempo, né dei rumori, né del suo aspetto, né di nient’altro. La sua esistenza si era ridotta a una elementare sequenza di azioni. Franklin non si rendeva conto, o forse non gl’importava, che tutti i suoi modelli così accuratamente elaborati e costruiti, l’intera struttura della sua esistenza, tutto ciò in cui aveva sempre creduto, o in cui aveva affermato di credere, adesso era stato spazzato via e gettato chissà dove nell’immondizia. Quello che era importante per lui erano le ciliegie, le campane e le prugne, e la combinazione che si formava quando le rotelle si fermavano.

Continuò a infilare monete e a tirare la leva, a studiale la macchina e a tirare la leva, a infilale, tirare, infilare, tirare. Per tre volte andò alla cassa a cambiare banconote, sempre guardandosi nervosamente alle spalle per controllare che nessuno gli occupasse la macchina. Continuò a giocare. Alle tre e mezza del mattino Franklin Gibbs era un uomo disperato, con il braccio destro rigido e indolenzito e un’ ossessione che allontanava da lui tutto il resto del mondo e lo costringeva a restale lì, a rimpinzale di monete una macchina mangiasoldi. Ne vinceva tre e ne perdeva cinque, ne vinceva due e ne perdeva tre, ne vinceva sei e ne perdeva dieci.

Mezz’ora dopo arrivò Flora, il cui volto era uno strano contrasto fra sonno e preoccupazione. Si era svegliata e aveva scoperto che il letto era vuoto. Quando lo scoprì accanto alla macchinetta spalancò gli occhi, incredula. Non lo aveva mai visto conciato in quel modo. «Franklin, caro…» La sua voce fiacca lo inseguì, e svanì mentre lui si allontanava. «Franklin!» gli disse, con mi tono di crescente preoccupazione nella voce. «Quanto denaro hai perso? Hai giocato con questa macchina per tutta la notte?» La risposta di Franklin fu secca. «Sì.» Indicò il grosso cartello posto sulla macchina. C’era scritto: premio SPECIALE: $8.000. «Lo vedi?» disse. «Quando paga, tu guadagni ottomila dollari!» Si girò di nuovo verso la macchina, parlando a lei più che a sua moglie. «Be’, prima o poi dovrà pagare. Basta restare qui abbastanza a lungo, e deve pagare per forza.»

* * *

Quasi a enfatizzare la logica di quell’affermazione, sbatté un’altra moneta dentro la fessura, tirò giù la leva e guardò come ipnotizzato le rotelle: apparvero una ciliegia e due limoni, e tre dollari d’argento scivolarono nel contenitore. Franklin si immerse nuovamente nel gioco e dimenticò sua moglie. Perse altri cinque dollari e sentì il sapore amaro dell’irritazione generata dalla sconfitta.

Si voltò e, con i palmi sudati, si aggrappò ai lati della macchina, stringendo le labbra. Il suo volto bruciava per la rabbia della frustrazione, mescolata alla febbre alta del giocatore che non sa giocare. «È di lei che mi frega» disse urlando. «Di questa macchina! Di questa dannata macchina. È disumano il modo in cui ti lascia vincere qualcosa e poi si riprende tutto indietro. Si prende gioco di te, ti riempie di lusinghe e di moine, ti succhia l’anima e poi…»

Infilò con violenza mi altro dollaro d’argento nella fessura, tirò giù la leva con entrambe le mani, poi restò a guardare le due prugne e il limone che si materializzavano sulle rotelle, seguite dal solito che soffocato, e dal silenzio.

Nel suo mondo erano rimaste solo due cose: se stesso e la macchina. Tutto il resto aveva cessato di esistere. Era un uomo piccolo, dal volto inacidito, con un abito fuori moda, che si era piazzato di fronte alla macchina e la rimpinzava di dollari d’argento solo per farseli rivomitare addosso. Ormai era come un drogato, alle prese con gli effetti prolungati di ima dose massiccia, e non si rese mai conto, nemmeno alle cinque del mattino, quando la sala era praticamente vuota.

* * *

Franklin aveva fatto appello a tutto ciò che per abitudine aveva puntellato la sua vita – la forza di volontà, la grettezza, le illusioni autoindotte, i pregiudizi – e se ne serviva come un’armatura nella sua battaglia contro la macchina, quando era già mattino. Infilare la moneta, abbassare la leva. Infilale la moneta, abbassale la leva. Insistere. Non arrendersi. Non interrompere la sequenza ripetuta di azioni, mano e braccio, occhio e orecchio. Questa era la nuova cronologia delle sue funzioni vitali.

Prima o poi la macchina doveva pagare. Doveva arrendersi. Doveva riconoscere la sua superiorità sputando fuori tutti insieme ottomila dollari d’argento. Tutto questo pensava Franklin mentre stava lì, inconsapevole della luce dell’alba all’esterno, inconsapevole di tutto tranne del fatto che era solo al mondo contro una macchina mangiasoldi che aveva anche un volto..

La vita di Franklin Gibbs si era interamente incanalata verso la slot-machine che aveva di fronte. A questo punto l’unica cosa che ricordava era di non avere fatto altro che infilare monete e abbassale la leva. Non sentiva sete né fame. Sapeva di essere stanchissimo e di avere la vista un po’ offuscata, ma quanto a rinunciale non se ne parlava nemmeno.

Alle undici e ventuno di sera Franklin Gibbs infilò l’ultimo dollaro. La macchina emise una specie di stiano ronzio, e la leva si fermò a metà della corsa, poi fece un rumore metallico e si bloccò. Franklin Gibbs rimase immobile per un lungo, incredulo momento e proprio allora si rese conto di essere stato imbrogliato. Fu il momento della grande truffa. Ovviamente quella era la moneta che gli avrebbe fruttato il premio di ottomila dollari. Non ne dubitava minimamente. Questa volta avrebbe vinto, e la macchina, quella macchina dal volto orrendo, quella macchina che gli aveva dato la caccia chiamandolo per nome, adesso si era abbassata al livello infame dell’inganno e si stava rifiutando di pagare.

* * *

Franklin sentì la rabbia che gli serpeggiava dentro, una rabbia che all’inizio era solo un ruscello, poi divenne un fiume in piena, ima rabbia che gorgogliava, ribolliva, traboccava, che all’improvviso gli si precipitò addosso, lo afferrò e lo travolse.

«Che ti prende?» gridò alla macchina. «Che ti prende, bastarda? Ridammi il mio dollaro, accidenti a te. È l’ultimo, miserabile, schifosa, lurida…» Gli mancò il fiato, e per un attimo riuscì solo a rantolare.

«Ridammi il mio stramaledetto dollaro». Colpì la macchina, la prese a pugni, la graffiò, la sballottò. Due impiegati, un cassiere e il caposala si diressero verso di lui da due punti opposti del salone, lo trascinarono via dalla sala che piangeva, urlava, strepitava, singhiozzava e lottava ancora. Flora corse insieme a loro, tormentandosi le mani e gemendo sottovoce. Il dottore dell’albergo medicò e bendò la mano di Franklin, gli applicò tre punti sul braccio e gli somministrò un sedativo. Accennò addirittura qualcosa a proposito della possibilità di un aiuto psichiatrico in futuro. Flora continuò ad annuire, il volto pallido e rigato nome. Aprì la porta che dava sul corridoio e la macchina era lì, che gli sorrideva.

L’ultimo momento della vita di Franklin trascorse in una folle corsa dalla stanza verso la finestra. L’attraversò parlando con sé quasi tutti i vetri e atterrò due piani più sotto sul marciapiede di cemento che circondava la grande piscina. Lo colpì prima con la fronte, e lo schiocco secco che gli staccò le vertebre alla base del collo fu un suono che Flora non aveva mai sentito prima. Ma stavolta lo sentì, e quel suono coprì il suo stesso urlo mentre si affacciava dalla finestra infranta e guardava giù la sagoma accartocciata di Franklin Gibbs in pigiama, con la testa piegata a un angolo strano rispetto al corpo. Era morto, non c’erano dubbi.

Fu impedito a chiunque di toccare il corpo. Qualcuno lo aveva opportunamente e pietosamente coperto con un lenzuolo. Un vicesceriffo aveva chiamato l’ambulanza e stava riuscendo solo adesso a ricacciale indietro i curiosi dalla zona della piscina.

In basso, accanto alla piscina, il corpo di Franklin Gibbs giaceva freddo e martoriato, con una mano senza vita che sporgeva da sotto il lenzuolo, immobile sul cemento. Dall’ombra dei cespugli lì intorno provenne un suono metallico. Un dollaro d’argento cadde a terra e rotolò in linea retta lungo il cemento fino a fermarsi proprio accanto alla mano di Franklin Gibbs.

Nessuno nell’albergo riuscì a spiegarsi che cosa ci facesse il bandito con una mano sola, la slot machine, nei pressi della piscina, dove lo ritrovarono la mattina seguente.