I testi di Benedetto Vecchi che pubblichiamo in questo inserto nell’anniversario della sua scomparsa rappresentano, insieme a quello dedicato al tema dell’opinione pubblica scritto per il quaderno di euronomade su «contropotere», gli ultimi mesi del suo instancabile lavoro di analisi della società contemporanea e di ricerca degli strumenti politici necessari a una sua radicale trasformazione.

Aperti su un futuro tutto da costruire questi scritti ruotano attorno a una impasse, a un nodo irrisolto, ma senza alcuna rassegnazione di fronte all’iniqua solidità dello stato di cose esistente. Ciò che registrano è una diffusione planetaria di mobilitazioni di massa, femministe, ecologiste, antirazziste che investono sì contraddizioni fondamentali del capitalismo globale e dei suoi dispositivi di accumulazione, ma senza riuscire a penetrarne il cuore, il rapporto sociale originario che istituisce il sistema dello sfruttamento. Movimenti che non riescono, insomma, a divenire potere costituente, che assediano la cittadella del capitale senza però riuscire ad abbatterne le mura. Ribellioni senza rivoluzione, come si intitola il suo ultimissimo scritto.

Ma è una difficoltà, questa, che comporta anche un avanzamento rispetto alle forme tradizionali di organizzazione politica, rispetto all’affidamento della giustizia sociale al potere dello stato, rispetto a una pretesa di omogeneità che riduce drasticamente la ricchezza della composizione sociale e il valore delle singolarità.
Benedetto è categorico nel respingere scorciatoie o l’illusorio ripristino di condizioni ormai tramontate. La sua esplorazione e il suo ragionare politico non ignorano che le potenzialità autonome del lavoro vivo contemporaneo, precario, mutevole, frammentato, sono anche le condizioni che lo espongono al ricatto e allo sfruttamento.

Ma è in questo mare di ambivalenze che sceglie di navigare contando su qualche rilevante punto di forza: l’esperienza dell’agire collettivo accompagnato da un’abitudine non diffidente alla molteplicità, il reciproco riconoscimento, l’assemblea intesa non solo come momento del confronto e della deliberazione bensì come «fatto sociale totale». Senza scandalizzarsi quando i movimenti si rivolgono alle organizzazioni internazionali, ai parlamenti, agli stati o alle aule di giustizia. Mantenendo però consapevolezza dei limiti che questo comporta e della necessità di mettere a punto una «propria» politica.

A questo compito intendeva contribuire con quella critica dell’economia politica digitale e del capitalismo delle piattaforme alla quale ha dedicato anni e anni di lavoro.

Mettendo in guardia dalla duplice tendenza di dichiarare il mondo completamente cambiato o sostanzialmente identico a sé stesso, dall’accreditare scenari di liberazione in atto o di irrimediabile e totale oppressione. Da questa impostazione derivava un’idea di politica agile, spregiudicata, sempre aperta all’imprevisto, mai disarmata, ingenua o appagata dai suoi eroici natali.

Il suo ultimo lavoro incompiuto è dedicato all’utopia e al suo rapporto di indissolubile e conflittuale parentela con il realismo politico. Tensione che attraversa qualunque efficace politica di trasformazione sociale.

Se fosse ancora tra noi credo che Benedetto Vecchi starebbe lavorando agli effetti della pandemia sulla nostra accresciuta dipendenza dal capitalismo delle piattaforme, dalla tutela e dal controllo dello stato, dalla proprietà intellettuale dei brevetti. Temi ricorrenti nel suo percorso di ricerca. Non ha potuto farlo, ma ci ha comunque lasciato un buon numero di affilati strumenti per continuare l’impresa.