Una nostalgia siderale
Mappe celesti Inizia oggi sulle pagine della cultura una serie dedicata all'esplorazione delle stelle, immaginaria e reale. Questa volta è il filosofo tedesco Hans Blumenberg ad aprire la riflessione, affrontando la nascita dei miti, la malinconia di chi rimane a casa, l'ansia della fuga verso altri mondi non più divini e la delusione dello scoprire la Terra sottomessa al Sole
Mappe celesti Inizia oggi sulle pagine della cultura una serie dedicata all'esplorazione delle stelle, immaginaria e reale. Questa volta è il filosofo tedesco Hans Blumenberg ad aprire la riflessione, affrontando la nascita dei miti, la malinconia di chi rimane a casa, l'ansia della fuga verso altri mondi non più divini e la delusione dello scoprire la Terra sottomessa al Sole
Per gli storici della filosofia il motto di Kant, giovanissimo autore di una Storia universale della natura e teoria del cielo, sul «cielo stellato sopra di me» e sulla «legge morale in me», ha un retroterra storico complicato, poco congeniale ad una ricezione edificante e zuccherosa. Di sicuro ha a che fare con il sublime, a sua volta oggetto di controversie: per arrivare ad esso bisogna pensare che rientri nel novero delle improbabilità sorprendenti e innaturali il fatto che noi viviamo sulla Terra e possiamo vedere le stelle, che cioè le condizioni della vita non escludano quelle del vedere o viceversa. Così Hans Blumenberg, il quale aggiunge: il medium nel quale viviamo è da un lato abbastanza denso da farci respirare e da non farci bruciare di radiazioni provenienti dall’universo, dall’altro non così torbido da inghiottire del tutto la luce e da precludere ogni sguardo sull’universo.
Cosmo sensato e universo muto
L’equilibrio tra il necessario e il sublime, tra la nuda sopravvivenza e il lusso contemplativo, è fragile. Le dispute cosmologiche non conoscono la quiete asettica dei laboratori: incamerano materiali simbolici, religiosi e perfino allusivamente politici che consentono al filosofo di ricorrere a strumenti diversi da quelli dell’astrofisico guidato dalle scienze naturali. A volte si assiste solo al festival di un antropocentrismo di ritorno, capace di rinascere ogni volta dalle sue ceneri, in altri casi l’esito non è così ripetitivo. Nell’antichità la contemplatio caeli ha una carriera fittissima non necessariamente indebitata con la religione, anche se già allora si diceva tutto il male possibile di Lucrezio, l’impietoso demolitore di tante superstizioni: ha bollato come tali le cose celesti e divine superstantes. Del suo ispiratore greco Epicuro il giovane Marx scrisse che era il più grande illuminista greco, eppure il protagonismo del cielo non si è sempre mosso all’insegna della luce (la madre di tutte le metafore) e del rischiaramento.
Al centro dell’interesse di chi, come Blumenberg, si è impegnato in un confronto intenso con la cosmologia occidentale e con alcune stelle o pianeti come il sole, la luna e la Terra in particolare, è la questione della loro significatività per l’interpretazione di sé e del mondo, che soggiace a numerosi mutamenti storici. La scienza moderna ha disincantato lo spazio da cosmo saturo di senso a universo muto, in cui l’uomo pensoso si sente quasi inevitabilmente perduto.
Il termine coniato per questo approccio è astronoetica: una riflessione ermeneutica, ma anche libera e fantasiosa, sui pianeti, sulle stelle e sull’universo nel suo insieme, proiettata sull’autointerpretazione dell’uomo sullo sfondo del cielo stellato o di singoli pianeti e soli. Una storia della scienza? Una collazione di teorie cosmologiche? No: l’astronoetica è la riflessione di quelli che sono rimasti a casa: indaga i motivi, le nostalgie e i miti che hanno spinto l’uomo nello spazio.
Essa mostra perché l’astronautica fosse tanto inevitabile quanto insensata. Il termine è improbabile quanto la disciplina che dovrebbe designare: con l’astronoetica viene recuperato quanto di più costante c’è nella biografia intellettuale di Blumenberg, dall’interesse per l’evoluzione storica della curiositas al riso beffardo della donna di Tracia, che motteggia l’incapacità di Talete di occuparsi delle cose terrene. La ricerca spaziale era inevitabile perché la curiosità è troppo profondamente radicata nella situazione naturale e storica dell’uomo per essere eliminata con divieti. Era invece insensata perché credeva di trovare con mezzi tecnici ciò che è soltanto il rispecchiamento della vita terrestre. «Chi si aspettava dalla faccia posteriore della luna più che dalla faccia interiore, ha perduto la scommessa – si è imbattuto in un deficit di razionalità» (Blumenberg).
Rotte del ritorno
L’astronoetica è la riflessione terrestre sulle delusioni spaziali: è impegnata sul terreno dell’elaborazione dell’«assolutismo della realtà» (a suo modo un lutto primigenio), quell’insieme di potenze – da Dio al tempo alla natura – contro le quali si gioca la partita dell’autoaffermazione umana. La riflessione sugli equivoci che potrebbero essere suscitati dall’apparizione di un viaggiatore umano nello spazio su un pianeta sconosciuto ricava un senso proprio dalla controfattualità come tratto caratteristico della filosofia moderna, per la quale è diventata problematica la coincidenza di ordinamento naturale e ordinamento etico del mondo. Non è più così ovvio che il cielo stellato sia un’immagine della legge morale, ecco perché la filosofia moderna pensa contro i fatti. Anche qui abbiamo un Ulisse in giro per l’universo, ma il senso di questo scenario è proprio quello di ribadire l’irresistibile nostalgia della Terra e l’immanenza del ritorno. Ulisse può tornare ad Itaca solo per la via più indiretta, ma la grandezza del ritorno – non quella della partenza –allontana Itaca dalle rotte più semplici. Magari geonauti provenienti dalla luna avrebbero una curiosità teoretica di intensità diversa da quella del tipo a noi familiare di ricercatore e di avventuriero: per il nostro Ulisse spaziale, invece, a dispetto dei rischi insiti nelle sue imprese, «deve rimanere aperto il pertugio del ritorno».
Diceva Günther Anders che il prezzo da pagare all’immensità è lo straniamento, del quale sono forse testimonianze anche esperimenti mentali come le Conversazioni sulla pluralità dei mondi di Fontenelle o Micromégas di Voltaire, dove arrivano sulla Terra esseri extraterrestri di enorme grandezza corporea. I cittadini della Terra spiegano ai nuovi arrivati, gli «abitanti di Sirio» (quelli di cui Georg Simmel diceva che non sono a noi estranei, perché anche l’estraneità è una relazione) che l’intero universo è stato creato per l’uomo, con il che si espongono al ridicolo al cospetto dei visitatori extraterrestri. Già la differenza di grandezza tra le due specie di esseri viventi smaschera come sfrenata arroganza la pretesa ad una posizione centrale.
Da un lato, c’è lo strapotere privo di riguardo e di familiarità del mondo reale, dall’altro gli stratagemmi umani, spesso talentuosi e inventivi, per tenere a distanza questo sovrano assoluto che è la realtà. E così: da un lato è con l’aiuto degli strumenti della scienza che l’uomo rende controllabile e tecnicamente utilizzabile la natura anonima e lontana; dall’altro lato, questi stessi strumenti mettono a nudo la non-manipolabilità della natura. L’universo a volte viene interpretato come ordine armonico-ornamentale, in cui l’uomo assume una posizione di eccellenza, a volte come universo muto, del tutto indifferente ai suoi interessi di sopravvivenza e alla sua fame di senso.
Spettatori trascendenti
Il contrario del chaos (termine che rinvia allo sbadigliare e allo spalancarsi, ad una immensa apertura, ad un baratro, ad uno spazio vuoto) è il kosmos, che ancora oggi la cosmetica ci ricorda essere ineluttabilmente aggraziato. Originariamente, anzi, l’universo non coincideva con il cosmo, che per così dire fagocitò l’universo nella sua bellezza. Guardare il cielo con le sue stelle lucenti è momento di eccellenza per i cittadini della Terra e premessa al consolidarsi della figura dello spettatore, destinata ad un curriculum filosofico a dir poco brillante. La reazione irridente della ragazza di Tracia alla caduta nel pozzo di Talete, il protofilosofo distratto dal cielo e incapace di badare alle cose vicine, può essere considerata come una delle prime ferite inferte al cosmo.
Ne arrivano altre, prevedibilmente, da sponde religiose, quando il mondo, nel silenzio dell’astronomia, viene rappresentato come bisognoso di redenzione e come opera di un creatore che lo trascende. Il cielo stellato cessa di coincidere con la realizzazione dell’esistenza umana: se questo accadesse, ne andrebbe di mezzo il bisogno di redenzione, che ha una sua ultimità non cancellabile. Il mondo è un luogo caduto nella tentazione, eppure è la casa di Dio, custodita con cura pastorale. È qui che si inserisce quella canzone popolare che dà il titolo ad un libro di Blumenberg: Dio ha contato le stelle e non gliene manca nessuna.
Il lutto «eliocentrico»
La completezza o il numero completo (la Vollzähligkeit) delle stelle spinge ad una conciliazione securitaria con la vita, collocandosi all’opposto della paura suscitata da un cosmo esperito come un altrove minaccioso e senza nome. La completezza del numero delle stelle significa anche catena dell’essere, a noi divenuta familiare con l’opera omonima di Arthur Lovejoy e risalente ad una linea che va da Omero a Platone. Dio è bensì il garante dell’ordine mondano, ma la catena dell’essere, proprio perché così ben congegnata, è a rischio anche per la sottrazione di un solo elemento.
In verità, la famosa questione della ferita narcisistica copernicana, con l’uomo impegnato ad elaborare il lutto del passaggio all’immagine eliocentrica del mondo e dell’ineloquenza delle stelle per il suo destino, può essere letta in modo diverso: negli intenti di Copernico non è (come non era in quelli di Colombo) una rottura irreparabile con il medioevo cristiano, ma il salvataggio dell’immagine tradizionale del mondo per il tramite del colpo di scena eliocentrico. Con la Terra che gira intorno a se stessa e al sole si recupera una forma di ordine quasi perfetta. Espulso dal centro dell’universo, l’uomo ne è comunque punto di riferimento: la mediazione è data dalla separazione rinascimentale dell’antropologia dalla cosmologia. L’uomo ha perduto il centro spaziale del mondo? Niente panico. La bellezza del suo corpo (vitruviano?) e il decorum della sua ragione dicono che è lo scopo ultimo della creazione: nell’ordine delle cose e degli esseri viventi è al posto supremo.
Retrocessione delle stelle
Neutralizzata l’insidia dello spazio, geocentrico o eliocentrico che sia, si punta sulla gerarchia, che può affermarsi anche in un angolo remoto. Il centro del mondo, de-spazializzato, viene idealizzato, nel momento in cui diventa obsoleto lo schema centro-periferia e si affermano i nuovi criteri valoriali e opposizionali del sopra e del sotto, dell’altezza e della profondità. La trasformazione della Terra in una stella tra le stelle recupera lo svantaggio segnato dalla vecchia cosmologia, nella quale tutti i movimenti avevano un corso regolare circolare, e dunque classifica il cielo stellato come più perfetto della Terra, dove quei movimenti comparivano solo come eccezioni: promuovendo la Terra a stella tra le stelle, non si elimina il cielo, ma si eleva la Terra a cielo. L’astronomia moderna ha prodotto una sorpresa subdolamente pre-copernicana.
Vero è che, nel frattempo, anche le stelle sono diventati corpi fisici, e dunque la nobilitazione della Terra conosce l’altra faccia della medaglia: le stelle vengono retrocesse al livello della Terra, la materia di cui sono fatte è altrettanto grezza. È in questo passaggio teorico e celeste che gli orizzonti del visibile e del reale si allontanano l’uno dall’altro, finché il mondo chiuso non si allarga a universo infinito. Con il telescopio di Galilei ciò che prima era da considerarsi globale si riduce, una volta commisurato a criteri effettivamente globali, a modesta dimensione regionale. Si scopre, per di più, che la superficie della luna non ha i caratteri – di tradizione aristotelica – di cristallina levigatezza e rotondità.
Ma il telescopio è soprattutto lo spodestamento dei sensi umani e di quello che tra di essi è il più nobile: la vista. Umiliata la dotazione organica dell’uomo, si apre il campo dell’invisibile e con esso quello di verità – ancora non scoperte – custodite in cielo. Non è più sostenibile che le stelle siano lì per essere viste a maggior gloria di Dio. Il visibile è circondato dall’incommensurabile/invisibile e la mala parata coinvolge anche le stelle: ce ne sono molte più di quanto un occhio umano possa vederne, anche con l’aiuto di potenti telescopi. A che tante stelle invisibili? A che una vuota immensità? Non è ormai una piccineria convocare l’uomo, a fronte della grandiosità e anche della crudezza di deserti celesti e di miliardi di stelle brillanti di idrogeno e di elio? All’uomo, così Blumenberg, non è riuscito di dimostrare che il mondo non è un deserto solo perché egli esiste, lo guarda e ne parla: la sua esistenza si compie «al di sotto della soglia delle rilevanze cosmiche».
Navicelle per la fuga
Il cerchio si chiude con le figure dell’«astronautica geotropica». Si va nello spazio accreditando la metafora della Terra come «nave appoggio» dell’astronautica, e già l’immagine della navicella spaziale e dell’astronave la dice lunga sul serbatoio da cui si estraggono le metafore. Ma quella metafora è in buona parte anche una metafora della mobilità e del sogno di fuga da una Terra sentita come greve e incatenante. La spinta centrifuga dell’astronautica non può, in realtà, capitalizzare la metafora della Terra come «nave appoggio», perché è la saldezza del suolo terreno ciò a cui le astronavi tornano. Che senso ha, infatti, fingere – con la disinvoltura turistica consentita e sollecitata da un qualche reportage televisivo – ammirato stupore per il paesaggio brullo, inespressivo, spettrale e davvero ineloquente, pieno solo di infiniti silenzi, della nostra galassia? L’astronautica si volge indietro, il suo tropismo si indirizza alla Terra e la gratifica di una significatività che non è in possesso di quei mondi nuovi che la scienza ci ha dischiuso accanto a quello terrestre. Il senso viene recuperato in extremis, ma guardando indietro – non, come vorrebbe la scienza, guardando avanti. Gli sforzi dei teleologi in vena di apologia della natura riescono solo a rendere più intensa l’esperienza dell’indifferenza di senso di ciò su cui, attraverso le scienze, veniamo informati.
Chi rattoppa il senso in questo modo, non sa rassegnarsi al dato antropologico per cui l’uomo è un’eccezione della natura che deve la sua esistenza solo alla correzione di una deviazione, assolutamente insperata, improbabile e assai lontana, secondo le regole della natura organica, da ogni conformità allo scopo. Non si rassegna al profilo della ragione come superamento rischioso di un deficit di adattamento che fa di essa stessa un adattamento sostitutivo, surrogatorio e in seconda istanza. Di tutto questo dovrebbe tener conto qualsiasi search for extraterrestrial intelligence.
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