Le difficoltà del Pd hanno riaperto un dibattito sul significato e le prospettive della sinistra. Marco Revelli riporta il tema alla sua essenzialità: la sinistra è l’indignazione contro l’«oscenità» delle diseguaglianze. In un carteggio con Pietro Ingrao, pubblicato qualche anno fa, con parole diverse, mi venne di dire una cosa simile. Ingrao raccontava le ragioni della sua adesione al comunismo: scaturita dall’impossibilità, non solo razionale, ma anche emotiva, psichica, corporea di accettare la conquista da parte di Hitler dell’Europa e quindi del mondo. Il rifiuto di un esito insostenibile lo ha spinto a prendere parte alla lotta clandestina.
Gli rispondevo che qualcosa di simile, in modo assai meno epico, era avvenuta nel mio animo di adolescente, quando a quattordici anni presi la mia prima tessera del Pci. Non per aver letto Lenin o Marx: per il disagio del mio animo rispetto alla sproporzione di forza tra chi comanda e chi subisce; la quale condanna le persone ad una muta condizione di dolore.
La politica e la sinistra mi sono apparse la via più concreta e plausibile per tentare un riequilibrio. Non so se sia un fare per gli altri o piuttosto per se stessi: in quanto ti muovi perché è letteralmente non sopportabile per te posare lo sguardo sulla crudezza dello stato delle cose. Sono diffidente rispetto ad un certo eticismo. Materialisticamente, mi pare più giusto, riferirsi a ciò di cui siamo fatti. Rizzolati ha dato conto scientificamente di tutto ciò: con la scoperta dei «neuroni specchio» ha dimostrato come gli esseri umani biologicamente siano in grado di mettersi nei panni dell’altro e di conoscere e sentire come propri i sentimenti, le passioni e le sofferenze di chi sta loro accanto. Purtroppo non siamo fatti solo di questa pasta. Tuttavia la sinistra nasce e ha fatto leva su queste reti neutrali profonde e innate.
Al di là delle differenti ideologie, delle esperienze riuscite o fallimentari, della varietà degli involucri storici, è quella scintilla che ha illuminato il suo cammino. Bene: tale scintilla può essere declinata in modo radicale o moderato. Immediato o graduale. Ma se si spegne, assorbita dall’accettazione dell’anarchia del potere assoluto dei potenti, la sinistra perde la sua ragione di essere. Il dramma di oggi è questo. L’ambiguità dell’ottantanove si è alla fine risolta in una sconfitta e nell’incapacità di riaprire in forme nuove la partita. La crisi del novantadue ha fatto il resto: togliendo di mezzo i partiti di massa stremati dalla corruzione, che tuttavia erano stati, pur con tanti limiti, la forma attraverso la quale si era espressa la spinta al riscatto e all’uguaglianza delle masse popolari. In quel tornante storico dell’89/92, si è aperto un vuoto. Dopo, nessuna ricerca di forme nuove di rappresentanza, nel soggetto politico e nelle istituzioni. Solo Berlusconi, sul suo versante, ha dato una risposta. Con il populismo. Non ci piace. Ma è stata una risposta. Il grosso della sinistra ha elaborato principalmente il tema del governo. Quando è toccato a noi abbiamo fatto meglio degli altri. Ma rimanendo a mezz’aria: perdendo il nostro cielo e la nostra terra. In verità alla deriva sono andate tutte le sinistre. Sia quelle moderate, sia quelle radicali. Tutte alla fine incapaci di rappresentare con la dovuta ampiezza e profondità quel bisogno innato nelle persone di ribaltare il rapporto di forza tra chi sta sotto e chi sta sopra. Si sono manifestate identità oligarchiche e/o autoreferenziali e chiuse in se stesse. In chi ha privilegiato la prospettiva governativa; in chi ha scelto la nobile e solitaria testimonianza di una storia; in chi ha costruito partitini identitari e minoritari. Anche la pratica, assai più produttiva ,dei movimenti, come le maree, emerge e poi scompare.
Non dà continuità e stabilità di rappresentanza. Dunque, il carburante umano e sociale del cambiamento, non trova serbatoi adeguati: si disperde in tanti rivoli o si blocca entro strutture povere , conservatrici ed oligarchiche. Rimane una esigenza inevasa. Da qui il vero dramma delle ultime elezioni: l’enorme aumento dell’astensionismo e l’esplosione di Grillo. Non sintomi, questi, di antipolitica. Al contrario segnali di una politica rabbiosa o sconfitta perché non ascoltata, interpretata e resa visibile. A questo siamo. Questo è il nodo. E qui va tagliato. Ma la soluzione è tutt’altro che facile. Non ci possiamo appellare ad ideologie passate.
A modelli indiscutibilmente vincenti. All’implementazione di partiti che si vorrebbero più pesanti e radicati, senza valutare che se ciò fosse fatto a partire dalla loro attuale costituzione materiale, invece di estendere la fiducia e il consenso, aumenterebbe ulteriormente il distacco o la repulsione. Ne ci possiamo affidare a soggetti e gruppi sociali omogenei che, pur ancora in parte presenti, hanno perso i loro vincoli interni, la loro unitarietà e sono attraversati da conflitti e frammentazioni identitarie. La seconda modernità ci consegna la vita nuda degli offesi. Dispersi e soli. Spaesati nei flussi della globalizzazione e senza appigli per migliorare la propria vita rendendola più giusta e libera. Le contraddizioni attraversano gli individui.
Che possono contemporaneamente essere oppressi ed oppressori. Il dominio dei potenti è ancora più forte ed invasivo rispetto al passato. Ma è senza volto, insondabile, poliedrico.
La sofferenza non viene riconosciuta socialmente, ed è ricacciata nel privato delle singole vite. Che fare? Occorre, radicalmente ripartire da lì: dalle persone.
Il soggetto politico riformatore non può che azzerare se stesso, per ricostruirsi politicamente e antropologicamente, a calcomania su questo inedito panorama umano. Con mano leggera ma chirurgica nella precisione, deve indagare le nuove emarginazioni, non solo economiche, e sollecitare le individualità disperse ad esprimere la loro spinta ancora potente a cambiare le cose; e poi fissarla, dargli consistenza, transitoriamente cristallizzarla in una coscienza politica che si realizzi in azione. Tale spinta per essere politica, non può che ambire all’innovazione, che è il contrario della registrazione aritmetica delle opinioni. Come pensa Grillo. Il processo precipita positivamente se c’è, dunque, il riconoscimento della scintilla, l’incontro con gli altri per socializzarla, il confronto delle opinioni e, infine, la deliberazione. Se c’è, insomma, l’esercizio di una sovranità diffusa che non si limita a scegliere i leaders, ma decide le fondamentali opzioni politiche.
Occorre, in nome della politica, consumare fino in fondo, e con una certa radicalità i cascami di quella vecchia;la degenerazione oligarchica, sia nella sua veste moderata sia in quella solo verbalmente radicale: non per un gusto post moderno o semplicemente per nuovismo.
Al contrario: per recuperare la radice umana dalla quale la sinistra scaturisce. D’altra parte ogni vera innovazione, è innovazione della tradizione. L’operazione può sembrare acrobatica. Eppure e ciò che tocca fare. Non è un cedimento alla confusione, al movimentismo, all’assemblearismo, alla diserzione del comando e della direzione politica. Piuttosto è la messa in tensione tra i processi che si formano dal basso e i gruppi dirigenti apicali legittimamente eletti. Tutto deve avvenire attraverso procedure democratiche semplici, accoglienti, certe e continuative. Nei luoghi deputati, che sono le migliaia di agorà da fondare nel Paese, trasformando i circoli o le sezioni. Questo soggetto politico va definito come un grande campo unitario, pluralista, inclusivo e perennemente contendibile dalle persone e non dai partitini, dalle correnti e dai notabili.
Ho avvertito nelle ultime cose dette e scritte da Vendola qualcosa che si muove su questa prospettiva. E’ ora, infatti, di dare spazio ad uno slancio di generosità e di speranza. Occorre riunire e mischiare tutti i democratici, che in modo diverso hanno un medesimo sguardo sul mondo. Ci siamo divisi in molti casi pretestuosamente sui programmi o su presunte identità che non esistono e che sono solo funzionali alla conservazione di orticelli di potere.
Non esistono e non funzionano riformismi «perfetti», calati dall’alto o programmi salvifici da far uscire dai cassetti. Gli attuali partiti e le attuali tecnostrutture, sono assai meno del passato in grado di capire ed interpretare. Serve una eleborazione «terragna». Ci dobbiamo accontentare di tentare. Magari di fallire e di tentare ancora.
Le soluzioni saranno sempre provvisorie, aperte ad una verifica continua. E’ la società di oggi che ce lo impone. Tuttavia, quando abbiamo fatto prevalere ciò che ci unisce, un metodo di trasparenza e l’empatia tra tutti i democratici, abbiamo sempre vinto, come in tutte le grandi città. Questa è la mia sfida per il congresso del Pd; ma secondo me essa riguarda tutta la sinistra e tutte le forze del cambiamento.