Può una regione con decine di migliaia di cittadini non-autosufficienti in attesa di essere presi in carico dal servizio sanitario pubblico destinare milioni di euro del bilancio regionale, anziché alla cura dei malati, a spese non altrettanto essenziali per la cittadinanza come, per esempio, il rinnovamento degli arredi dei propri uffici?

La domanda è delicata, perché non c’è decisione più sovrana di quella di bilancio, ambito d’azione per eccellenza della discrezionalità politica.

Eppure, in tempo di crescente ristrettezza delle risorse pubbliche e di conseguente compressione dei diritti che richiedono gli interventi più costosi (salute, scuola, previdenza e assistenza su tutti), il tema sembra ineludibile.

Proprio in nome delle esigenze legate ai vincoli di bilancio, gli ultimi governi piemontesi – in una sorprendente continuità politica che lega Cota a Chiamparino – hanno dato vita a una politica sanitaria restrittiva, che individua nel contenimento delle spese il suo obiettivo prioritario.

Complice la crescita della quota di popolazione anziana, a venir preso di mira è stato soprattutto il settore della non-autosufficienza, ambito nel quale le economie conseguite possono moltiplicarsi per numeri molto rilevanti.

La restrizione dell’accesso alle cure sanitarie, disposto con delibere regionali, ha negli anni prodotto una lista d’attesa così lunga che – tolti i casi di coloro che, per disperazione, si rivolgono agli ospedali, dapprima intasando i reparti di pronto soccorso e poi occupando posti letto assai più costosi di quelli a cui avrebbero diritto nelle residenze socio-assistenziali (Rsa) – la grande maggioranza dei malati in questione è costretta, spesso affidandosi alle famiglie, a far fronte privatamente al costo del proprio accudimento al domicilio o della retta di ricovero in Rsa, erodendo i risparmi di una vita.

Proprio su quest’ultimo profilo si concentra una recente sentenza della Sezione lavoro del Tribunale di Torino, che condanna una azienda sanitaria a rifondere le spese di ricovero in Rsa sostenute privatamente dai familiari di una cittadina non autosufficiente.

A detta del giudice torinese, il sistema regionale è stato infatti costruito in modo tale da violare le previsioni legislative statali che, facendo rientrare le prestazioni necessarie a far fronte alla non-autosufficienza, tanto sanitarie quanto socio-sanitarie (un’endiadi inscindibile), nei livelli essenziali di assistenza, ne impongono l’erogazione alle Asl e le collocano a carico del fondo sanitario.

Oltre che per la convincente argomentazione sul punto, la sentenza merita di essere segnalata per un’ulteriore considerazione suscettibile di assumere valenza generale. Si tratta del passaggio in cui il giudice, mostrandosi ben consapevole della limitatezza delle risorse pubbliche, afferma senza mezzi termini che il richiamo a questa situazione di fatto («innegabile e scontata»), lungi dal risultare un’obiezione decisiva, si configura in realtà come «un falso problema». A suo dire, infatti, la vera questione è quella dell’allocazione delle risorse, non la loro scarsità.

Come si legge nella sentenza: «le risorse disponibili sono suscettibili di diversa ripartizione, che riflette le (legittime, purché rispettose del perimetro costituzionale) scelte politiche del legislatore». Detto altrimenti: spetta al legislatore, nella sua discrezionalità, ripartire le risorse disponibili, ma ciò deve avvenire nel rispetto del vincolo delle priorità costituzionali di spesa.

La domanda sembra allora legittima: tra l’acquisto dei nuovi arredi per gli uffici regionali e la cura dei malati non-autosufficienti quale spesa deve avere la priorità?