Una partenza inquietante, drammaticamente inquietante. E per comprendere bene quanto lo sia, basta un esempio: quello di Internet, la rete che usiamo tutti i giorni. Avviata con un progetto pubblico, certo con scopi militari come sanno tutti, ma quasi immediatamente rientrata nel “pubblico” tout court, con Arpanet, che era lo strumento che metteva in collaborazione le università in tante parti del mondo. Quella rete, nel giro di appena un ventennio, s’è trasformata in un gigantesco mercato, dominato da quattro, cinque oligopoli. Questo Internet. “Proviamo a domandarci allora cosa potrà essere il Metaverso che parte direttamente dai privati, a guida privata, con una governance privata”.

Si comincia da qui, allora, da questa riflessione suggerita dal professor Guido Scorza, membro dell’Autorità per la protezione dei dati, per provare ad immaginare – anche solo ad immaginare – cosa potrebbe essere la difesa dei diritti nell’universo parallelo. Ed è esattamente il tema del convegno promosso dal Garante della privacy il 30 gennaio a Roma.

Con un’ulteriore premessa. Che prima di ogni altra cosa andrebbe definito – provato a definire – cosa sia il Metaverso. Definizione che nessuno oggi è in grado di dare esattamente, né, tantomeno, di prevedere cosa diventerà domani. Sappiamo che c’è una data d’inizio nell’uso di questa parola: il 28 ottobre di due anni fa, quando Mark Zuckerberg annunciò il cambio di nome del suo gruppo. Facebook da allora si sarebbe chiamato Meta. Con riferimento ad uno dei significati della parola in greco (in macedone, dicono gli esperti): qualcosa che sta di là, oltre.

Con questa espressione Zuckerberg ha voluto indicare il suo nuovo terreno di interesse ed ovviamente soprattutto di profitti. Un mondo parallelo dove si interagisce attraverso un avatar, incontrando persone, lavorando, ascoltando una lezione. Facendo affari. Guadagnando criptovalute.

Qualcosa – senza entrare nei dettagli filosofici del cambiamento radicale che una prospettiva di questo genere implica, ampiamente trattato nel convegno – che muta il nostro approccio al “mezzo”: da una presenza come quella che ci richiede oggi il nostro stare davanti ad un computer ad una “presenza dentro l’esperienza digitale”, per dirla con Luciano Floridi, professore all’università di Oxford.

Presenza, tutto fa capire, che le big tech vorrebbero comunque a riproduzione del mondo reale: con i suoi squilibri, con le sue disuguaglianze, con lo svuotamento dei poteri democratici. Il rischio c’è, il rischio è forte nel Metaverso.

Già, ma poi perché continuarlo a chiamare così? Formula contestata da Agostino Ghiglia, anche lui componente dell’autorità per la difesa dei dati. Per il quale quella parola – Metaverso – è solo una trovata di marketing, per affermare, per “spingere”, addirittura per imporre come una necessità inderogabile, quella che è solo una trova di mercato. Almeno per ora. Perché nessuno sa cosa sarà domani il metaverso o l’ultraverso, che dir si voglia.

Di concreto ci sono i sessanta milioni di “visori” già venduti, lo strumento attraverso i quali si accede a quest’universo parallelo -, un altro centinaio di milioni già ordinati e si calcola novecento, un miliardo gli utenti nel mondo. Ma di “concreto”, di tangibile ci sono soprattutto le cifre del prossimo futuro: i cento miliardi di investimenti dei grandi gruppi nel settore per i prossimi quattro, cinque anni. Senza contare i mille nuovi ricercatori assunti da Apple per recuperare il gap in questo settore e gli oltre 1800 da Microsoft.

Sono cifre che raccontano come il problema non possa essere ignorato, sottovalutato. Tanto più – l’ha raccontato sempre il professor Floridi che da tempo conduce studi sul cambiamento antropologico connesso al Metaverso – che basta aver frequentato un po’ quel mondo, i laboratori di ricerca che se ne occupano, per aver capito soprattutto una cosa. Che lì, i nostri dati sono assolutamente “trasparenti”. Non solo i dati dichiarati ma quelli intuibili. Come si parla, chi si frequenta, le reazioni che abbiamo coi nostri avatar sono immediatamente traducibili in dati. In profili.

E ancora. Se oggi si fa fatica – per ammissione della stessa autorità – a proteggere le persone dal “rastrellamento” dei loro dati per profilarle, è facile immaginare la quantità, l’inimmaginabile quantità di dati che occorrono per “disegnare” l’ambiente virtuale che vogliamo frequentare. Per anticipare ciò che desidereremmo vedere nel Metaverso.

E chi li controlla questi dati? Che fine fanno? Come vengono utilizzati? Il problema odierno   semplicemente moltiplicati per diecimila, centomila volte. Ad oggi, la governance, le leggi di questo mondo parallelo – che già interferisce col mondo reale, senza dover ricorrere alla fantascienza – le hanno scritte le big tech. Decidono loro. Su tutto. Senza ricorrere a metafore eccessive ma è un po’ come avveniva all’epoca dei signori feudatari, per usare un ragionamento di Ginevra Cerrina Feroni, vicepresidente del Garante.

E allora? A grandi linee, come ha spiegato in un coloratissimo intervento Sebastiano Maffettone, professore di filosofia politica, occorre “semplicemente” immaginare un nuovo patto sociale.

Cominciare ad immaginare un nuovo patto sociale. Detta così, significa anni, decenni di discussioni, di studi, di confronti. E forse non c’è tutto questo tempo. Perché un mondo progettato, guidato e diretto solo dal profitto ha implicazioni anche per la democrazia, com’è evidente. Dunque, c’è bisogno in tempi stretti di un intervento che provi a regolarlo. Ex ante, come dicono i legislatori, prima cioè che sia definita nel dettaglio l’architettura di questi universi paralleli.

E si comincia suggerendo soprattutto un metodo. In pillole: quest’intervento non può farlo una sola categoria di esperti. Non i legislatori, non gli ingegneri, né altri. Nessuno da solo. Occorrerebbe l’interdisciplinarietà fra chi deve mettere limiti al Metaverso, fra chi deve obbligare le big tech al rispetto dei diritti umani anche lì ed i sociologi, i filosofi. Un confronto continuo fra tecnici e scienze umane, fra chi conosce gli algoritmi e chi indaga il pensiero delle persone.

Con in più quella che è ancora meno di un’idea, ma è stata già buttata lì nel dibattito: distribuire quote sociali agli utenti per democratizzare il Metaverso. Da subito, non per correggere, dopo, le sue storture.

Insomma, con un efficace slogan: per riportare il digitale, il digitale che verrà, al “terreno”. Su questa terra.