«La donna clitoridea non ha da offrire all’uomo niente di essenziale, e non si aspetta niente di essenziale da lui. Non soffre della dualità e non vuole diventare uno. Non aspira al matriarcato che è una mitica epoca di donne vaginali glorificate. La donna non è la grande-madre, la vagina del mondo, ma la piccola clitoride per la sua liberazione».

La traiettoria suggerita da Carla Lonzi in La donna clitoridea e la donna vaginale è precisa: delinea un soggetto che riafferma la propria sessualità e rompe il binarismo eteronormato. La clitoride è metonimia di una sessualità liberata e rivoluzionaria dove la mano, e la sua estensione, il dildo, sono i «deus ex machina» dell’orgasmo. La teoria si spinge fino a Preciado con una rilettura epistemologia attraverso la dildotettnoica «che si propone come obbiettivo quello di individuare quelle tecnologie di resistenza (dildi) e quei momenti di rottura della catena di produzione corpo-piacere-beneficio-corpo nelle culture sessuali etero e queer».

Tra queste due teorie intercorre la storia che vede l’oggetto in questione transitare, mutando forma e colore, dalle zone nascoste del tabù – o mediche – a presenza fissa nelle camere da letto. Il marketing applicato ai sextoys ha cambiato veste e la comunicazione women oriented ha preso il sopravvento imponendosi sul mercato. Il vibratore – inventato da un uomo per curare l’isteria – non è più status symbol della raunch culture – così definita, dall’autrice Ariel Levy, la cultura altamente sessualizzata in cui le donne sono incoraggiate a oggettivarsi – ma espressione del women empowerment.

Nel dibattito pubblico lo sdoganamento del sextoy per donne, seppur indice di un rapporto più libero e consapevole con il proprio corpo, non possiamo definirlo del tutto femminista. I vibratori e i sexshop «al femminile» utilizzano difatti un colore pink diverso da quello adottato dalle piazze dei movimenti (femministi). Non vi è posizionamento critico al binarismo di genere, rosa e azzurro, alla liturgia machista dell’attivismo politico. Il pink del brand women oriented è un’opportunità in più di vendita.

Cogliamo un rischio in questo «genere» di comunicazione. L’attenzione verso la visibilità del piacere femminile è una grande conquista, ma se egemonica, silenzia e appiattisce il piacere di chi non si riconosce nella rappresentazione di questo «femminile» e del design che lo rappresenta. Una comunicazione che demonizza le forme falliche realistiche porta a creare uno spartiacque fra donne per bene e donne per male. E non tiene conto delle soggettività transgender.

E dire che lo sdoganamento dei sextoys nel dibattito pubblico ha al contrario un’origine fortemente politica (tutt’ora urgente): la mancanza di spazi capaci di proporre differenti immaginari sessuali e accogliere quelli non conformi. I sexshop femministi, assieme al lavoro politico del femminismo pro-sex, hanno contribuito a ridefinire il mercato dell’intrattenimento per adulti.

È compito del dildo manomettere l’immaginario stereotipato di una sessualità eteronormata e maschilista, ed è qui che entrano in gioco le donne: è merito di una donna tedesca, Beate Köstlin, l’apertura del primo sexshop al mondo, mentre i sexshop per donne connessi con il movimento femminista, sorpresa, aprono in America negli anni ’70, come Eve’s Garden fondato nel ’74, o Good Vibration nel ’77, l’Europa del nord segue a ruota, mentre in Italia abbiamo atteso qualche anno in più, il 2001 con Sexyshock/Betty&Books, ma il sostegno unanime dai femminismi italiani non va dato per scontato. Il dibattito politico sull’opportunità di appropriarsi di un territorio pensato per il desiderio maschile era fonte di interminabili assemblee quanto il rifiuto del dildo, percepito come sostitutivo fallico e pratica penetrativa non desiderata: la soggettivazione politica trans FtoM – Female to Male era ancora in divenire.

In Italia non abbiamo assistito come negli Stati Uniti al «processo alla pornografia» capeggiato da Andrea Dworkin e Catherine Mc Kinnon sostenitrici della coincidenza tra diffusione delle immagini pornografiche e stupro, che, al di là della virulenza, ha avuto il merito di spostare la questione fuori dai circoli ristretti e renderla pubblica. Il sexshop era percepito come provocatorio in un contesto femminista che guardava al porno e ai sextoys con sospetto indicando in quegli spazi la riproduzione di una cultura patriarcale e a dirla tutta: laida.

Un nuovo sguardo lo dobbiamo a Micaela Staderini, che ha dato voce a posizioni libertarie sia rispetto alla cornice del sexworking che alle pratiche sessuali, è del 1998 il suo Pornografie. Movimento femminista e immaginario sessuale. E ancora Helena Velena con la sperimentazione di una tuta indossabile per connettere le relazioni digitali, presentata a Erotica nel 1994 e che «ha la capacità di fare l’amore con creature di cui non si conosce precedentemente il sesso genitale e che si potrebbero rivelare di quello opposto a quello immaginato». Accanto alle teorie gli stessi sexshop femministi sono riusciti a proporre differenti immaginari ampliando il discorso politico sull’uso dei sextoys con workshop DIY. La condivisione delle tecnologie e dei processi formativi sulla sessualità contro il controllo tecno-patriarcale della conoscenza è una pratica femminista che richiama il self-help degli anni ’70. In un percorso di riappropriazione dei codici della pornografia e del piacere, il dildo/vibratore diviene un dispositivo politico e non amorfo oggetto.

Nella staffetta della memoria femminista, il dildo è il passaggio di testimone. Se come dice Lonzi, ciò che deve essere cambiato non è il modo in cui una donna è, ma il modo in cui vede sé stessa, allora lasciamo che si possa riflettere in una molteplicità di dildi diversi perché l’unico imbarazzo che le resti sia quello della scelta.