Sun Tzu (Sunzi nella trascrizione pinyin) è il più antico trattato di strategia militare che si conosca: fu composto fra il V e il IV secolo a.C., nell’epoca degli Stati Combattenti, una fase cruciale nella storia cinese, di inusitata violenza e insieme di straordinaria creatività, nei cui spietati conflitti si consumò la crisi e la dissoluzione della civiltà arcaica ed ebbe luogo la cruenta gestazione dell’impero centralizzato, fondato dal sovrano di Qin, il Primo Imperatore, nel 221 a.C.

È senza dubbio uno dei testi della classicità cinese più famosi in Occidente, come attestano le sue numerose traduzioni, moltiplicatesi negli anni recenti (ad esempio quella di Roger Ames del 1993, o quella di Riccardo Fracasso del 1994), e le sue utilizzazioni in ambiti molteplici, non soltanto militari, che svariano dal business management alle tattiche sportive alle procedure di negoziazione processuale.

A dire il vero, la sua prima versione – apparsa nel 1772 a Parigi in L’art militaire des Chinois del gesuita padre Amiot – passò quasi inosservata, e sorte non molto diversa ebbero le traduzioni inglesi e tedesche del primo Novecento, per quanto accurate come The Art of War di Lionel Giles, uscita nel 1910. L’opera si conquistò una straordinaria popolarità internazionale soltanto con la versione di Samuel B. Griffith del 1963 (rist. Oxford University Press 2005), nel cui commento il curatore proponeva un accostamento, divenuto in seguito pressoché un luogo comune, fra le tesi del Sun Tzu e la teoria della guerra rivoluzionaria di Mao Zedong, sottolineando come l’antico testo avesse significativamente influenzato la riflessione del Grande Timoniere, che vi fa a più riprese un esplicito riferimento. Va incidentalmente notato che in effetti, oltre alle significative consonanze, andrebbero sottolineate anche le rilevanti differenze nella concezione stessa della guerra e dei suoi obiettivi: nel caso del Sun Tzu sono in scena eserciti regolari impegnati in campagne necessariamente brevi, mentre la guerra partigiana delineata da Mao è essenzialmente una «guerra prolungata», il cui scopo è conseguire lo sfinimento del nemico.

Comunque, all’epoca in cui apparve il lavoro di Griffith, i successi di Giap e delle tattiche vietcong nello scenario della guerra del Vietnam inducevano il pubblico occidentale a considerare le capacità militari elaborate nel solco delle tradizioni culturali dell’Asia orientale con ben diversa attenzione rispetto a un passato in cui la potenza bellica era parsa indiscutibile monopolio dell’Occidente. Fu in tale contesto che maturò la riscoperta su scala globale del Sun tzu, una riscoperta che coinvolse anche il Giappone il quale, diversamente da quanto un diffuso mito vorrebbe, si era ispirato ben più a Clausewitz che ai classici cinesi per costruire la propria moderna macchina militare.

Le motivazioni di fondo del grande interesse riscosso dal Sun Tzu si possono in sostanza ricondurre – come ha sottolineato François Jullien nel suo Traité de l’efficacité – al peculiare modello di strategia che si delinea tra le sue pagine: un modello antitetico a quelli elaborati dalle tradizioni occidentali antiche e moderne, e nel quale invece del protagonismo del soggetto e del primato del volere e dell’agire si configura una flessibile adesione all’ incessante processualità del reale e si delinea un’accorta capacità di mettere a frutto le potenzialità implicite nelle situazioni date. Una modalità di agire straordinariamente efficace, insomma, che si fonda, paradossalmente, sulla pratica del non agire (wu wei) tematizzata nei testi coevi quali il Laozi, ascrivibili alla tradizione cosiddetta taoista.

Se la notorietà acquisita dall’opera nel corso degli ultimi decenni ha indubbiamente contribuito alla percezione del suo risalto nel panorama complessivo del pensiero cinese, questa stessa notorietà sembra averne a volte determinato alcune rappresentazioni in qualche misura stereotipate e delle interpretazioni eccessivamente schematiche, che l’hanno collocata in una sorta di esotica e astratta atemporalità. Ad offrire articolate chiavi di lettura di questo celebre classico fondate su una rigorosa contestualizzazione storica e critica provvede l’edizione del Sun Tzu (pp. 423, euro 48,00) che esce ora da Einaudi, a cura di Maurizio Scarpari – autore di numerosi studi sul pensiero cinese antico quali Il confucianesimo, i fondamenti e i testi, e il recente Mencio e l’arte di governo e curatore della grande opera collettiva sulla civiltà cinese dalle origini ai giorni nostri La Cina (Einaudi, 2009-2013) – e di Attilio Andreini, fra i cui lavori c’è una fondamentale edizione del Laozi (Einaudi, 2004) e al quale qui si deve, insieme a Micol Biondi, la traduzione annotata del testo.

Questa versione, già apparsa nel 2011 nella collana Et Classici, si caratterizza per il suo aggiornamento filologico, poiché tiene conto degli importanti ritrovamenti di manoscritti antichi che hanno avuto luogo negli ultimi decenni, e che hanno contribuito in cospicua misura a riformulare il quadro delle nostre conoscenze del pensiero pre-imperiale. Il commento di Jean Levi – uno degli studiosi più autorevoli dell’antichità cinese, di cui ha offerto una vivida descrizione in Les fonctionnaires divins (Paris 1989) – e il ricco apparato iconografico a cura di Alain Thote erano apparsi in edizione originale nel 2010 (L’Art de la guerre, Nouveau Monde Editions). Il ricorso alle immagini, di cui molte sono rare o addirittura inedite, corrisponde a finalità molteplici: da una parte per loro tramite si evoca il testo, le vicende della sua trasmissione e della sua influenza, la figura del suo presunto autore; dall’altra si illustra il mutamento degli armamenti e delle tecniche belliche che costituì lo sfondo concreto del trattato, e che recenti scoperte archeologiche hanno contribuito a rappresentarci con inedita pregnanza.

La grande trasformazione che ebbe luogo all’epoca in cui il Sun Tzu venne composto fu il passaggio dalla guerra nobiliare caratteristica del mondo arcaico – improntata alle virtù cavalleresche del coraggio, dell’onore, della magnanimità – alla guerra di massa, condotta con eserciti di leva di centinaia di migliaia di uomini e finalizzata all’annientamento dell’avversario: i campi di battaglia divennero non più gli spazi di valorose tenzoni, ma i luoghi cruenti di spietati e immani massacri. È a fronte di questa tragica realtà e della sua totale immoralità che prende corpo l’ontologia negativa del Sun tzu: l’opacità della guerra richiede di rendersi opachi, di attuare un’arte della dissimulazione che costringa il nemico a svelarsi, di concretizzare esclusivamente a proprio vantaggio la dialettica del visibile e dell’invisibile. Come nei grandi testi taoisti che gli sono coevi, la metafora privilegiata è quella dell’acqua: il buon esercito è come l’acqua, pura virtualità, impalpabile e inafferrabile, capace di assumere qualsiasi forma in risposta al nemico, apparentemente labile ma a tempo debito inarrestabile, al pari di un’alluvione. La sua potenza è analoga a quella del Dao, e incessantemente trionfa sulla hybris della violenza manifestata e ostentata, incessantemente trae l’ordine dal disordine e dal caos.

Sotto questo profilo il Sun tzu si rivela una limpida e coerente espressione dell’epoca che fu l’autentica età assiale del pensiero cinese – un pensiero che, come mostra un’ormai vasta letteratura, fu figlio di polemos in una misura generalmente ignorata dalle convenzionali rappresentazioni invalse della cosiddetta «saggezza cinese», e in cui la ricerca dell’armonia scaturì costantemente da un audace misurarsi con la dimensione conflittuale del tianxia, ossia di «quanto sta sotto il cielo».