Dopo mesi in cui il lavoro delle donne, dentro e fuori casa, è stato definito «essenziale», Non Una di Meno ha risposto ieri che «essenziale è la nostra lotta». Centinaia di striscioni con questa frase hanno occupato piazze e strade di tutt’Italia per lo sciopero femminista e transfemminista organizzato in occasione dell’8 marzo: uno sciopero generale della produzione e della riproduzione, del consumo e dai ruoli sociali imposti dai generi. Uno sciopero che ha coinvolto anche le figure non riconosciute del lavoro, chi con la pandemia ha perso ogni forma di reddito e le persone migranti che con il lavoro rischiano di perdere anche i permessi di soggiorno. Costruito attraverso una serie di discussioni collettive e sostenuto dai sindacati di base, lo sciopero ha trovato quest’anno tante forme e declinazioni quanti sono i nodi territoriali del movimento dando vita, oltre ai colori delle regioni stabiliti dall’emergenza, le «zone fuxia»: zone libere e liberate.

LA GIORNATA di lotta ha attraversato la rete con pratiche di sciopero della connessione, ma anche fisicamente decine di città: con performance, flashmob o presidi che si sono trasformati in cortei. Sono stati simbolicamente occupati gli spazi davanti ai tribunali, come a Piacenza, per Elisa Pomarelli e per tutte le donne uccise; gli ospedali, come a Catania, contro il continuo smantellamento delle strutture socio-sanitarie decentrate e l’abbandono di interi quartieri; i centri antiviolenza, come a Napoli, contro la strutturale mancanza di personale e di finanziamenti pubblici; e i cancelli delle fabbriche, come a Torino (per sostenere le lavoratrici Jakala in picchetto) e a Bologna dove da tempo la lotta di Non Una di Meno si intreccia con quella delle operaie migranti di Yoox, azienda che impone turni impossibili alle lavoratrici madri.

Qualche giorno fa, la Commissione di Garanzia Sciopero aveva vietato al comparto scuola – uno dei settori ad altissima densità femminile – la partecipazione alla giornata. Ma le insegnanti e le docenti universitarie hanno trovato comunque il modo di manifestare la loro partecipazione organizzando lezioni dedicate alle rivendicazioni, oppure praticando forme di «disconnessione» da un’attività online diventata sempre più difficile da gestire insieme al lavoro riproduttivo e di cura.

UNA PRESENZA significativa nelle piazze, è stata poi quella delle e degli studenti: a Milano, così come a Verona e a Roma dove le scuole hanno aperto con gli striscioni «zona fucsia« per rivendicare, tra le altre cose, un’istruzione e spazi di formazione transfemministi, inclusivi, liberi dai pregiudizi e da ogni forma di violenza di genere. La crisi sanitaria, sociale e economica, ha spiegato Non Una di Meno, «ha colpito ancora una volta il lavoro femminile, migrante, non tutelato, precario, gratuito». E la gestione dell’emergenza ha fatto leva «sull’assenza completa della tutela della salute in particolare nei settori essenziali; sull’intensificarsi di forme di lavoro a distanza non normato e sul sovrapporsi del lavoro produttivo e di cura nello spazio domestico». La pandemia ha poi reso evidente quello che i movimenti femministi globali affermano da tempo: che non è possibile lottare efficacemente per aumentare il salario o per migliorare le condizioni contrattuali senza combattere la violenza maschile e di genere che pervade la società entrando in ogni luogo di lavoro.

NEL SUO APPELLO, Non Una di Meno ha insistito sul Recovery Plan e sugli oltre 200 miliardi che arriveranno in Italia. E a Roma, ieri, c’è stato un flashmob davanti al ministero dell’Economia e delle Finanze: se le politiche di inclusione di genere sono uno dei punti chiave del programma, è anche vero, ha spiegato il movimento, che «il Recovery Plan non rompe la disciplina dell’austerità» sulle vite e sui corpi delle donne e delle persone LGBTQIA+. «Da una parte si parla di politiche attive per l’inclusione delle donne al lavoro e di “politiche di conciliazione”, dando per scontato che chi deve conciliare due lavori, quello dentro e quello fuori casa, sono le donne».

Dall’altra non sono le donne, ma è la famiglia – la stessa dove si consuma la maggior parte della violenza maschile – il soggetto che resta al centro del discorso. Non Una di Meno al di là di ogni falsa retorica «sull’inclusione lavorativa», «sulle politiche di conciliazione vita-lavoro», e al di là della prospettiva «di un piano di ricostruzione patriarcale e confindustriale» ha opposto, con la sua giornata di lotta, un piano femminista di trasformazione sociale: «salario minimo europeo e reddito di autodeterminazione, socializzazione della cura, welfare universale e non familistico, permesso di soggiorno europeo non condizionato al lavoro e alla famiglia, diritto alla salute e all’autodeterminazione, priorità della salute ecosistemica rispetto ai profitti».