Tutto il pregresso di questi anni che effetti avrà nell’immediato futuro? Il 2015 ha come retroterra l’impresa italiana e le politiche pubbliche. Invece di occuparsi di creare lavoro il governo si impegna a realizzare la terza grande riforma del mercato del lavoro. Non sono interessati gli oltre 8,6 milioni di persone in cerca di lavoro, piuttosto gli occupati. Nessuna delle misure messe in campo creerà un nuovo posto di lavoro, semmai sostituzione di lavoro buono con lavoro incerto. Facendo la media della crescita del tasso di disoccupazione degli ultimi anni (2011-2014), questa raggiungerà il 16%, portando gli inoccupati a superare i nove milioni. È il risultato delle politiche di austerità, dell’archiviazione del diritto positivo e forsanche del diritto naturale. La «libertà da e la libertà di» sono diventati temi lasciati a impavidi docenti di diritto. Gli anni venti son tornati.

Riforma del mercato del lavoro per chi? Può esserci mercato del lavoro quando scompare chi domanda lavoro? Da Solow sappiamo che il mercato del lavoro dovrebbe essere trattato come una istituzione sociale, ma l’Italia si avvicina sempre di più verso la de-pauperizzazione. Non c’è solo la flessione del 25% della produzione industriale. Ben più grave è la dissoluzione di un quinto della capacità produttiva, confermata anche dalla Banca d’Italia. Il calo verticale degli investimenti di questi ultimi tre anni non sono attribuibili all’incertezza delle imprese (legittima). In realtà nasconde qualcosa di molto più profondo: la de-pauperizzazione dell’economia italiana. La riduzione degli investimenti è attribuibile alla dissoluzione del tessuto produttivo nazionale. Altro che incertezza, sta scomparendo l’industria assieme ai servizi alle imprese. Ma l’industria rimasta non è in buone condizioni. Reclamare l’archiviazione del diritto positivo è come reclamare la schiavitù per continuare a produrre cotone. L’impresa italiana reclama di continuare a produrre «cotone», dimenticando che il superamento della produzione di cotone e della schiavitù ha permesso all’America di diventare protagonista dell’industria internazionale e della crescita economica.

Può esserci di peggio? Il Cer ha calcolato l’indice di vulnerabilità alla deflazione dell’Italia mutuato dal FMI. Quando l’indice supera 0,5 il rischio di deflazione è alto. La rilevazione è inquietante: 0,9. Peggio di così si può solo «morire». Immaginate l’impatto del Jobs Act sui livelli di consumo e degli investimenti. Rischio deflazione 0,9? Diciamo che le cose andranno peggio. Se qualcuno si aspetta un rimbalzo tecnico del Pil ha dei problemi seri. Stante la dissoluzione dell’industria, dei servizi, tra non molto l’impatto cruento per tutto il commercio di qualsiasi ordine e grado e il livello di inoccupati (9 milioni), se nel 2015 il Pil diminuisce dello 0,5% sarebbe un miracolo. In realtà le cose non si ripetono allo stesso modo. Dopo sette anni di crisi è possibile contrarre ulteriormente il reddito. Il Pil è dinamico e rappresenta quanto accade nell’economia reale. Quanto accaduto in questi anni, assieme all’insipienza del governo Renzi, uso un eufemismo, faranno diminuire il Pil in misura maggiore. Difficile da contabilizzare, ma sarà certamente superiore al meno 0,5%.

Il recente rallentamento degli investimenti delle imprese italiane, che fino al 2011 erano rimasti costanti o superiori alla media europea (in rapporto al PIL), segnala una ulteriore debolezza: perdita di conoscenza di base e crescente inadeguatezza (impossibilità) nel selezionare i fornitori di beni strumentali e tecnologici. Da un lato agisce la sfiducia delle imprese («non potete aspettarvi che gli imprenditori si mettano a varare programmi di ampliamenti mentre stanno subendo perdite» Keynes, Teoria Generale), ulteriormente aggravata dal fatto che una parte del così detto made in Italy è ormai prodotto da paesi terzi, dall’altra l’impossibilità di condizionare lo sviluppo tecnologico, forsanche il puro apprendimento delle conoscenze tecniche prodotte all’estero. Non solo l’intensità tecnologica degli investimenti delle imprese italiane è coerente con la produzione, ma la minore incidenza della spesa privata in ricerca e sviluppo sul totale (40%) ha de-cumulato conoscenza e quindi condizionato i processi di apprendimento e adattamento di tecnologia terza. In questo modo si spiega la minore crescita del PIL dell’Italia e la crisi nella crisi dell’Italia.
Tanti commentatori sostengono che da questa crisi non si uscirà come siamo entrati. Alla fine il mercato seleziona le imprese migliori, ma le condizioni di partenza «condizionano» le risposte delle imprese e degli stati. Tutte le imprese europee sono state interessate dalla crisi, ma l’impresa italiana, in ragione delle debolezze pregresse, è crollata sotto il peso della propria de-specializzazione, a cui ha contribuito la flessibilizzazione del mercato del lavoro.
Lo stato dell’arte dell’industria italiana suggerirebbe delle misure economiche coerenti. La dinamica della domanda e dei consumi incide sulle scelte di investimento delle imprese, ma servirebbe anche una coerente capacità di offerta per soddisfarla. Le misure adottate dal Ministero dello Sviluppo Economico si muovono nel solco del sostegno agli investimenti e della ricerca e sviluppo (contributi, credito di imposta, agevolazioni fiscali, finanziamenti agevolati), disattendendo le politiche europee tese a sostenere i progetti pre-commerciali. La politica industriale e di ricerca e sviluppo è lasciata alla libera iniziativa privata, indipendentemente dalla de-pauperizzazione complessiva del tessuto produttivo. La politica industriale del governo si traduce in politica (leva) fiscale, con degli effetti misurabili in decimali.

Qualcosa potrebbe anche cambiare. La politica conta. La politica economica europea deve cambiare, ma deve cambiare anche la politica italiana. Un bel contributo potrebbe arrivare dal nuovo presidente della Repubblica. Servirebbe una personalità che sappia coniugare la necessità di cambiamento delle politiche nazionali ed europee. Con il nuovo presidente della Repubblica potrebbe aprirsi anche uno spazio riformista (rivoluzionario). Forsanche la possibilità di un partito della sinistra che oggi non è né carne né pesce.

Il 2015 non sarà un anno come tutti gli altri. La capacità di offrire uno sbocco almeno riformista alla crisi, mai come oggi il monito di Minsky «lavoro non assistenza» è diventato attuale, rappresenta lo sbocco naturale di tutta la sinistra. Occorre coraggio: chi lo possiede lo metta, che non lo possiede lo trovi.