La Ue non concederà un’estensione oltre la data-limite del Brexit, ormai stabilita il 12 aprile (era il 29 marzo), se Theresa May arriva al Consiglio europeo del 10 aprile a mani vuote, senza l’approvazione dell’accordo di uscita. Ieri, mentre era atteso il risultato dell’incontro finalmente avvenuto tra la premier Theresa May e il leader del Labour, Jeremy Corbin, il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, e il commissario agli Affari monetari, Pierre Moscovici, hanno avvertito sui «rischi di no deal», che «si avvicinano». Il presidente della Commissione ha precisato che «se la Gran Bretagna è in grado di approvare un accordo di uscita per il 12 aprile, la Ue è pronta ad accettare l’allungamento dei tempi fino al 22 maggio. Ma il 12 aprile è l’ultima deadline per approvare l’accordo da parte della House of Commons. Se non passa entro quella data, non sarà possibile nessuna breve estensione», perché ci sarebbe «un’interferenza nelle elezioni europee» e nel «funzionamento della Ue». Juncker assicura Londra che la Ue è «pronta a iniziare il dialogo per la relazione futura appena la Gran Bretagna vota l’accordo di uscita», «prima che l’inchiostro sia asciutto».

Tutta la confusione a Londra e l’agitazione a Bruxelles riguarda solo l’accordo di uscita, che apre un periodo di transizione, poi dovranno essere stabilite le «relazioni future» dopo il divorzio. La Gran Bretagna ha sempre la possibilità di rinunciare all’articolo 50 (no Brexit) o di partecipare alle elezioni europee di maggio (se presenta proposte credibili e ottiene un’estensione della transizione).

La Ue si prepara a far fronte a un cliff edge. «Misure limitate nel tempo e unilaterali», ha precisato Juncker, per «permettere di difendere gli interessi della Ue almeno fino a fine anno» e per «mitigare il peggiore impatto dello scenario del no deal» per i cittadini europei, perché possano «continuare a vivere e a lavorare dove sono al momento»: si tratta di misure per evitare il blocco dei trasporti, la paralisi della finanza, la guerra della pesca, per avere le dogane pronte a far fronte alla nuova situazione.

La commissione Libertà, Giustizia e Interni del Parlamento europeo ha votato ieri un regolamento sull’esenzione dei visti per i cittadini britannici che viaggeranno nella Ue dopo un eventuale no deal. Tra forti polemiche (c’è stata anche la dimissione del presidente di questa commissione, il laburista inglese Claude Moraes), la Spagna ha fatto passare una nota a questo testo sui visti, dove Gibilterra, la roccia al sud dell’Andalusia sotto controllo inglese dal 1713, viene definita «colonia della corona britannica» (è un modo per avanzare delle pedine per la difesa futura dei 14mila spagnoli che ogni giorno passano il confine per andare a lavorare a Gibilterra). Ma è la prima volta che in un testo europeo entra il termine «colonia».

Emmanuel Macron, che martedì ha ricevuto il primo ministro irlandese Leao Varadkar, ha affermato se la Gran Bretagna non presenta «un piano alternativo credibile, avrà di fatto scelto di uscire senza accordo. Noi non possiamo evitare il fallimento al suo posto». Potranno essere «nuove elezioni, un referendum, una soluzione diversa come un’unione doganale», ma «non tocca a noi decidere, noi siamo aperti. Ma tocca a Londra decidere e deve farlo adesso». Varadkar, angosciato per i rischi di una frontiera tra le due Irlande, pensa che resti del «tempo a Theresa May per presentare proposte». La Germania gioca la carta della prudenza: «Parlatevi e mettete l’interesse del paese prima di quello dei partiti» è l’appello a Londra dell’eurodeputato tedesco Elmark Brok (Ppe).