Non sarà facile né veloce rimpatriare i 184 tunisini sbarcati venerdì mattina a Lampedusa. Come spesso gli accade, il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha venduto la pelle dell’orso prima di averlo preso, annunciando come imminenti delle procedure «innovative ed efficaci» per rispedire a casa chi viene dalla Tunisia.

A VIENNA, infatti, Salvini aveva incontrato in via informale il suo omologo di Tunisi, il ministro Hichem Fourtati, e con lui avrebbe discusso proprio di queste nuove procedure, ma non c’è nulla di definito, anzi.

Martedì a Roma avrà luogo un nuovo faccia a faccia. Intanto dalla Tunisia fanno sapere che ci si continuerà a muovere sulla base degli accordi esistenti e che non è in programma alcun tipo di procedura velocizzata o comunque diversa rispetto a quanto fatto fin qui.

GLI ACCORDI IN VIGORE prevedono il rimpatrio via volo charter soltanto per quei migranti che arrivano sulle coste siciliane.
Per loro prima c’è un incontro con il console tunisino a Palermo, poi, una volta eseguite le varie verifiche sull’identità, si può procedere con le procedure d’imbarco sugli aerei, dove per ogni migrante deve esserci la scorta di due agenti di polizia. In questo modo si possono mandare indietro fino a un massimo di ottanta persone a settimana.

L’arrivo dei 184 a Lampedusa ha particolarmente irritato Salvini, che prima ha inveito contro Malta – «rea» di non essere intervenuta quando le imbarcazioni erano nelle acque di sua competenza – e poi ha cominciato a parlare di accordi da rivedere. «Lì non c’è guerra, non c’è carestia e non si capisce perché debbano partire barchini e barconi – ha detto il ministro – Lavoriamo per cambiare accordi che altri ci hanno lasciato e che non sono assolutamente soddisfacenti». L’idea, in buona sostanza, è di far partire più charter con più persone a bordo.

I 184 SBARCATI, nel frattempo, devono mettersi in fila per le consuete procedure di identificazione e aspettare il giudizio delle commissioni. Qualora i migranti volessero presentarla, la loro domanda d’asilo andrebbe esaminata prima dell’eventuale rimpatrio; in caso contrario l’Italia rischierebbe seriamente una condanna da parte della Corte internazionale per i diritti dell’uomo.

PER QUESTO MOTIVO la faccenda non si risolve con uno schiocco di dita, come pure Salvini vorrebbe far credere. Tra l’altro i dati della Direzione centrale dell’immigrazione della polizia parlano di 1.633 rimpatri su 3.515 tunisini rintracciati in Italia dall’inizio del 2018. Meno della metà dunque, con 569 che sono stati espulsi con accompagnamento alla frontiera, 64 allontanati su provvedimento dell’autorità giudiziaria e 995 respinti dai questori. Sono invece 1.703 i tunisini rintracciati e non rimpatriati: 1.695 non si sono attenuti agli ordini del questore e otto si sono opposti alla partenza volontaria.

È la seconda volta nel giro di pochi mesi che il ministro dell’Interno si fa correggere da Tunisi. La prima volta fu a giugno, quando, appena insediato, il leader leghista arrivò a dire che la Tunisia «non sta esportando gentiluomini ma spesso galeotti». Il governo del paese africano, ovviamente, si risentì e chiese spiegazioni per la prima di tante infelici uscite del loquace Matteo.

Adesso la situazione è per certi versi simile, con l’ulteriore incomodo della non semplicissima situazione politica che sta vivendo la Tunisia nelle ultime settimane.

Il premier Youssef Chaled è stato sospeso dal suo partito nella giornata di venerdì e un fronte guidato dal figlio del presidente Caid Essebsi sta portando avanti una pesante linea di ostruzionismo parlamentare che rischia addirittura di minare l’organizzazione delle prossime elezioni. In più non va dimenticato che appena pochi giorni fa il Movimento Cinque Stelle si è scagliato di nuovo contro le quote extra di importazione di olio senza dazi dalla Tunisia verso la Ue. La misura venne varata dopo l’attentato al museo del Bardo del 2015 ed è scaduta nel 2017. Tuttavia, secondo i pentastellati, l’export tunisino continua a muoversi senza dazi e per questo è stata inoltrata un’interrogazione alla Commissione europea. Negoziare nuovi accordi in queste condizioni potrebbe essere davvero complicato.