«Ttip e Tpp sono soprattutto strumenti geopolitici»
Intervista a Walden Bello «La globalizzazione corporativa e il neoliberismo hanno perso molta credibilità e sono dunque sulla difensiva», dice il teorico del movimento anti-globalizzazione
Intervista a Walden Bello «La globalizzazione corporativa e il neoliberismo hanno perso molta credibilità e sono dunque sulla difensiva», dice il teorico del movimento anti-globalizzazione
In parallelo al Ttip, gli Usa stanno negoziando un accordo molto simile con 11 paesi dell’Asia Pacifico, chiamato Trans-Pacific Partnership (Tpp). In occasione del Forum dei popoli Asia-Europa, tenutosi a Milano dal 10 al 12 ottobre, abbiamo incontrato Walden Bello, celebre teorico del movimento anti-globalizzazione, a cui abbiamo chiesto di spiegarci qual è la strategia globale che lega i due trattati.
Oggi i negoziati bilaterali e multilaterali, come il Ttip e il Tpp, hanno di fatto sostituito i negoziati all’interno dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc). Siamo entrati in una nuova fase della globalizzazione?
Sì, penso che possiamo dichiarare definitivamente conclusa la fase trionfalista della globalizzazione, che ha raggiunto il culmine negli anni novanta per poi entrare in crisi dopo la storica manifestazione contro il vertice dell’Omc di Seattle, nel 1999. Oggi ci troviamo in una situazione in cui la globalizzazione corporativa e il neoliberismo, rei di aver provocato la peggiore crisi economica dal dopoguerra in poi, hanno perso molta credibilità, e sono dunque sulla difensiva. Possiamo dire che è il concetto stesso di globalizzazione neoliberista ad essere entrato in crisi. Ma ovviamente esistono degli interessi consolidati molto forti che continuano a spingere in quella direzione, e che sono sostenuti dalle élite tecnocratiche e da buona parte del mondo accademico.
Quanto ha contribuito il movimento no-global di fine anni novanta e inizio 2000 a mettere in crisi il paradigma della globalizzazione neoliberista?
Il merito principale è stato quello di aver mandato in frantumi la credibilità e la narrazione trionfalista della globalizzazione corporativa. L’importanza storica delle mobilitazioni di Seattle sta proprio in questo: nell’aver mostrato al mondo intero che l’imperatore era nudo. Anche prima di quella manifestazione, infatti, abbondavano le ricerche che dimostravano che la globalizzazione stava generando l’opposto di quello che prometteva, che stava provocando un aumento della povertà e delle disuguaglianze, ma è Seattle che il paradigma è stato definitivamente infranto, svelando a tutti il lato oscuro della globalizzazione.
Il progressivo indebolimento dell’Omc, da quel momento in poi – dopo Seattle, abbiamo assistito al fallimento dei negoziati di Cancún, e poi a quelli di Bali, l’anno scorso, che di fatto hanno messo in stallo tutta la macchina – è da considerarsi una grande vittoria, in quanto l’Omc era lo strumento di punta della globalizzazione neoliberista. La decisione di resuscitare il vecchio modello dei negoziati bilaterali o multilaterali, per mezzo di accordi come il Ttip o il Tpp, va visto dunque come una scelta di ripiego, anche un po’ disperata, dettata dal fallimento del «sogno» di giungere a un consenso universale in fatto di diritto commerciale, attraverso l’Omc. Ma sono accordi che presentano molti elementi di fragilità, a partire dall’enorme resistenza che stanno incontrando sia da parte dell’opinione pubblica (lo dimostra la rapida ascesa del movimento «Stop Ttip» in Europa), sia da parte di settori importanti dell’economia (come quello dell’agribusiness in molti paesi asiatici). Detto questo, non dobbiamo fare l’errore di pensare di avere la vittoria in tasca: la sfida che abbiamo di fronte è ancora lunga.
Cosa accomuna il Ttip e il Tpp?
I due trattati sono per molti versi speculari. In primo luogo, in entrambi i casi i negoziati stanno avvenendo nella massima segretezza, ed è facile capire il perché: come ha detto Ron Kirk, l’ex rappresentante per il Commercio statunitense, se i contenuti degli accordi fossero resi pubblici, la gente vi si rivolterebbe contro. In secondo luogo, non riguardano tanto gli scambi commerciali in sé quanto l’ampliamento del potere delle multinazionali su ogni aspetto della nostra vita, per mezzo dei cosiddetti diritti di proprietà intellettuale e di strumenti come l’Isds, che limitano la sovranità nazionale, permettendo alle multinazionali d fare causa ai governi nel caso in cui un intervento legislativo comporti una diminuzione dei loro profitti. In terzo luogo, entrambi gli accordi hanno una componente geopolitica molto importante: nel caso del Ttip, esso si può considerare l’estensione economica della Nato, ed è evidente che uno dei suoi obiettivi principali è contenere il potere della Russia; nel caso del Tpp, l’obiettivo è chiaramente la Cina. Più in generale, sia il Ttip che il Tpp mirano a contenere il tentativo dei Brics di creare un blocco economico alternativo a quello occidentale. In questo senso, hanno anche una dimensione ideologica che non è da sottovalutare: essi incarnano i «sani» valori occidentali – il libero commerciale, la civiltà, lo stato di diritto, ecc. –, rispetto ai valori alieni dell’«altro». Questo rivela anche l’ipocrisia dell’ideologia del «libero mercato«: se fosse veramente tale, questi accordi dovrebbero essere estesi anche a paesi come la Russia e la Cina, ma ovviamente questo non è minimamente contemplato dagli Usa o dall’Ue.
Sarebbe corretto vedere questi accordi come una forma di neocolonialismo o di neoimperialismo, in continuità con gli accordi di libero commercio imposti dagli Usa in passato ai paesi in via di sviluppo (anche in Asia)?
Considerando che sia nel caso del Ttip che del Tpp non siamo di fronte a dei “semplici” accordi multilaterali di libero commercio, ma a dei trattati in cui la componente geopolitica e securitaria è importante tanto quanto quella economica, non sarebbe esagerato definirli una forma di neoimperialismo. Attraverso questi trattati, le potenze egemoni (Stati Uniti ed Europa) puntano innanzitutto a rafforzare la loro sfera di influenza e ad arginare quelle forze che minacciano la supremazia dell’Occidente. In questo senso, così come il Ttip è da considerarsi un’estensione economica della Nato, anche il Tpp è strettamente legato alla politica di espansionismo militare degli Stati Uniti in Asia, detto “pivot to Asia”. In questo senso, questi trattati rischiano di avere un effetto fortemente destabilizzante dal punto di vista geopolitico.
Lei ha citato l’aspetto della segretezza, che è uno dei punti su cui i movimenti anti-Ttip battono maggiormente il chiodo. Nel caso dell’Europa, sappiamo che in molti casi anche gli stessi parlamenti nazionali sono tenuti all’oscuro dei negoziati, che sono gestiti dalla Commissione europea. Nel caso del Tpp, dove gli Stati uniti non hanno un interlocutore «privilegiato» come la Commissione con cui dialogare, come si svolgono i negoziati?
Nella maggior parte dei casi sono i rappresentanti commerciali di alto livello a gestire le trattative per conto dei vari governi. Ai negoziati hanno accesso anche i rappresentanti delle multinazionali, ma sono esclusi i rappresentanti della società civile e persino gli stessi parlamenti nazionali. Trovo sconcertante che i parlamenti non protestino più vigorosamente contro questa mancanza assoluta di trasparenza e di rispetto dei più basilari princìpi democratici. Questo è in buona parte imputabile al fatto che i paesi che sono interessati da questi accordi sono dominati da partiti conservatori che sono ideologicamente affini al neoliberalismo e hanno forti legami col grande capitale transnazionale. Lo stesso, ovviamente, vale per l’Europa.
Molti paesi asiatici – penso per esempio al caso delle ex «tigri asiatiche» – hanno reagito agli effetti devastanti delle politiche di aggiustamento strutturale imposte dall’Fmi e dalla Banca mondiale negli anni novanta perseguendo politiche più protezionistiche che hanno per certi versi «invertito» il processo di globalizzazione che era stato avviato nel continente, con risultati economici e sociali perlopiù positivi. Che influenza sta avendo questo sui negoziati intorno al Tpp, che invece va esattamente nella dizione opposta?
La globalizzazione neoliberista è sempre stata caratterizzata da una forte enfasi sulle esportazioni, ma la crisi economica, che ha fortemente depresso la domanda negli Stati uniti e in particolar modo in Europa, da sempre i principali mercati delle esportazioni asiatiche, ha costretto molti paesi dell’Asia a rivedere i loro modelli di politica economica.
Di fatto, si sono visti costretti ad abbandonare il modello strettamente neomercantilista degli anni ottanta e novanta e a perseguire una politica incentrata molto di più sulla domanda interna e su una più equa distribuzione del reddito. Nei limiti delle regole attuali, hanno anche cercato di perseguire politiche più protezionistiche, per esempio imponendo standard sanitari e di altro tipo per limitare le importazioni di beni e controlli di capitale per limitare i flussi finanziari, ottenendo persino il beneplacito dell’Fmi, che ha recentemente riconosciuto l’efficacia dei controlli di capitale nel prevenire le crisi. In questo senso, accordi come il Ttip e il Tpp, che hanno l’obiettivo di arrestare questo processo di de-globalizzazione, rappresentano un pericoloso anacronismo storico. Lo stesso si può dire della politica neomercantilista perseguita dall’Europa a guida tedesca.
A proposito di Europa, è impossibile non pensare al movimento no-global dei primi anni 2000 e alla sua capacità di mobilitare centinaia di migliaia di persone contro la globalizzazione neoliberista, una sfida che oggi appare quasi impossibile, nonostante l’accordo in questione, il Ttip, li riguardi molti più da vicino degli accordi del passato.
Penso che le dinamiche dei movimenti siano strettamente legate alle dinamiche spesso contradditorie della crisi economica. Il fatto che la crisi, in molti paesi europei, abbia determinato uno spostamento a destra dell’elettorato è un fatto che merita una seria riflessione, per esempio. Ad ogni modo, sono convinto che il disastro sociale provocato dalle politiche di austerità stia creando le condizioni perché riemerga un forte movimento anti-neoliberista e anti-corporativo. La domanda è: chi sarà a catalizzare la rabbia della gente, la sinistra anti-liberista o la destra populista? Purtroppo al momento quest’ultima sembra essere nettamente in vantaggio.
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