Ancorché alcuni sostengano che il paradiso sia attraversato da fiumi di latte e miele, non ci sono testimonianze che ce lo possano confermare. In compenso, di una cosa siamo certi: nonostante in questi giorni fiumi di latte stiano percorrendo le strade della Sardegna, questa non è il paradiso in terra.

Al contrario, la seconda isola italiana sta attraversando un momento che è quanto mai lontano da serenità e prosperità. I pastori, simbolo stesso dell’identità sarda oltre che fiore all’occhiello della produzione lattiero-casearia tricolore sono costretti a buttare il latte delle proprie pecore perché il prezzo che strappano sul mercato è inferiore agli stessi costi di produzione che devono sostenere. Sono di questi giorni le immagini dei blocchi stradali e delle cisterne rovesciate, e quando qualcuno è disposto a buttare il frutto del propriolavoro significa che la situazione è drammatica.

Le pecore sono animali difficili, la loro produzione di latte giornaliera è bassa, circa 1,5 litri, e avviene solo in alcuni mesi dell’anno. La pastorizia è un mestiere duro che prevede sacrificio e lunga esperienza, che richiede costanza e che merita di essere remunerata adeguatamente. Una remunerazione che i 60 centesimi al litro, tanto viene pagato oggi il latte ovino sul mercato, sono ben lontano dal rappresentare. Ma che cosa è successo? Perché proprio adesso scoppia questa vertenza?

Il problema è in parte già in questa domanda. Già, perché il problema non nasce adesso, e il fatto che oggi si sia arrivati a questo punto non significa che prima le cose andassero meglio. Sono anni che il tema della remunerazione del latte infiamma gli animi degli addetti alla filiera, e non solo quella ovina. Chi produce la materia prima, infatti, nella maggior parte dei casi conferisce il latte a grandi cooperative trasformatrici che stabiliscono il prezzo a tavolino sulla base di un mero rapporto tra domanda e offerta (e nell’offerta rientra anche il latte prodotto all’estero mentre troppo spesso la domanda è bloccata da contratti di filiera con la grande distribuzione organizzata). Data la disparità di dimensioni e di strumenti, il potere di contrattazione da parte dei trasformatori è totale. I pastori non sono padroni del proprio lavoro, non stabiliscono il prezzo e sono costretti a prendere ciò che viene dato loro.

Nello stesso tempo, però, questo latte entra in produzioni che hanno una riconoscibilità sul mercato e che godono di un certo appeal per i consumatori. E qui entra in gioco il ruolo di chi compra. Ad esempio, va ricordato come il 60% del latte ovino sardo sia impiegato per la produzione di pecorino romano, in gran parte esportato e comunque pagato circa 8 €/kg. Se per fare un chilo di pecorino servono 7 litri di latte, è evidente che con questi prezzi la filiera non può sopravvivere. Solo chi trasforma autonomamente può farcela. La verità è che se non si paga adeguatamente il cibo non ci guadagna nessuno, nemmeno chi compra a prezzi stracciati. E non è questione di fare la guerra al latte proveniente dalla Romania, dalla Bulgaria o dalla Francia (ed è latte che in ogni caso non può essere usato per i formaggi DOP tipo pecorino romano). La dignità dei contadini e degli allevatori non conosce frontiere. Il riconoscimento del lavoro o è per tutti o non è.