Se è sempre difficile individuare nella vicenda di un paese un «evento» che, almeno col senno di poi, assuma il valore simbolico dello spartiacque epocale, è tuttavia innegabile che nella storia alcuni avvenimenti finiscono per assolvere la funzione allo stesso tempo di catalizzatori e acceleratori di processi di lungo periodo che finiscono per irrompere e travolgere gli assetti consolidati.

Nel caso della restaurazione neo-liberista si è soliti richiamare il braccio di ferro intrapreso da Reagan con il sindacato dei controllori di volo, la guerra aperta dichiarata da Margaret Thatcher ai minatori, e il lancio da parte di Deng della parola d’ordine «arricchitevi!» rivolta al popolo cinese alle prese col post-rivoluzione culturale. Questi singoli eventi, con il loro vasto portato simbolico e materiale, hanno diffuso in seguito i cerchi concentrici della propria spinta propulsiva per tutto il globo, dove si sono diffusi con gradualità (una «rivoluzione passiva»).

L’Italia non ha fatto certo eccezione, anzi a partire dagli anni Novanta del secolo scorso gli effetti di questa rivoluzione/restaurazione si sono fatti sentire con particolare durezza, sono stati recepiti dalle oligarchie nostrane con zelo particolare.

Ma pure da noi il singolo «evento» si era già prodotto: il referendum sulla scala mobile del 1985.

I protagonisti di quell’aspra vicenda avevano ben chiara la portata reale della questione sul tappeto: non si trattava tanto di ridurre l’inflazione di qualche decimale di punto attraverso il taglio della contingenza, quanto di avviare una brusca opera di scomposizione e ricomposizione di blocchi sociali in via di disgregazione (porre fine a quello che Indro Montanelli aveva ribattezzato il «carnevale sindacale») e di cercare nell’urna referendaria una via d’uscita allo stallo in cui era piombato l’agone partitico.

L’operazione, col senno di poi, possiamo dire che riuscì perfettamente, anche se a giovarsene non furono le forze politiche che l’avevano imbastita.

Tuttavia, quando dalle macerie di tangentopoli emerse il berlusconismo, esso si ritrovò in dote un blocco sociale, un popolo, già consolidato nella società, e che il crollo dei partiti storici aveva liberato da antiche e ormai decrepite fedeltà.

L’attuale crisi della sinistra pare risiedere, al contrario, nelle (mancate) risposte elaborate di fronte all’irruzione del nuovo scenario.

Individuerei, a costo di incorrere in inevitabili schematismi, tre tipi di reazione.

La prima, maggioritaria, di tipo trasformistico, è quella che ha riguardato i partiti sorti dalla dissoluzione del Pci.

Un trasformismo di massa che ha consistito nella sostanziale introiezione delle ragioni dell’avversario di un tempo, e che ha tentato di traghettare il ceto sociale di riferimento all’interno dello schema dominante, cercando tutt’al più di smussare le conseguenze più dure del dilagare della restaurazione.

È tutto fuorché paradossale che questa opzione trasformistica si sia affermata grazie al passaggio a un regime elettorale maggioritario: il regime, cioè, del «trasformismo dispiegato», del monopartitismo di fatto che si scinde soltanto una volta al sicuro all’interno del recinto delle oligarchie. Appare oggi chiaro, con il totale divorzio consumatosi tra Pd e ceti popolari, che l’opzione trasformista non poteva reggere.

Una seconda risposta, di tipo residuale, è stata quella adottata dalla sinistra sindacale.

Preso atto meccanicamente della sconfitta, più che tentare di modulare nuove risposte derivate da una matura comprensione delle dinamiche sociali profonde ad essa inerenti, si è tentato, nel mare in tempesta della globalizzazione neoliberale, di cercare qualche porto sicuro per la zattera dei naufraghi della classe operaia fordista, navigando a vista.

Ma, per rimanere nella metafora, troppo violento era l’uragano che si stava scatenando, e così né si riusciva a salvare la rappresentanza dei bisogni e degli interessi delle tute blu, né si allargava il cerchio dei diritti alle nuove subalternità incessantemente prodotte dalla restaurazione.

La terza risposta, che chiamerei impolitica, è stata propria degli eredi dei movimenti esplosi già da decenni sull’onda dello scoppio della prima «crisi spia» del sistema fordista, ed egemone nella sinistra radicale.

Questa ha forse fatto prima e meglio i conti con il carattere pluralistico assunto dal conflitto sociale nella nuova stagione, ma si è come adagiata su questa intuizione, pensando che la dilatazione degli ambiti del conflitto fosse destinata ad assumere di per sé un carattere «neo-costituente», eludendo quindi la necessità di elaborare chiare ricette di natura politica e sociale – anzi, sviluppando un certo grado di subalternità alla costruzione dell’Europa reale come via acriticamente obbligatoria dalla quale passare nel processo di allargamento del conflitto.

E ha ragione da vendere Alfonso Gianni: in questo panorama, mentre le oligarchie progettavano ed attuavano la loro «rivoluzione», le sinistre si abbarbicavano alle «regole», sperando di trovare nelle istituzioni un’ancora di salvezza alla loro inadeguatezza. Travolte dalla «rivoluzione» della destra le istituzioni care alla sinistra, questa è affondata con quelle.

Ora si grida dunque, allarmati, di fronte alla minaccia populista.

Ma non ci si accorge che il populismo è la condizione stessa della politica. Che – come ancora scrive benissimo Alfonso Gianni – la politica è morta solo a sinistra, perché si è rinunciato a creare un popolo che desse poi vita a istituzioni rinnovate. Lezione che la destra ha invece appreso benissimo.

Un’annotazione finale, a questo proposito.

Negli anni ’80 la ventata neoliberista non si è certo affermata preconizzando le macerie attuali. La destra dell’epoca prometteva felicità. Si appropriava, in termini nuovi, della parola libertà. Tutti ingredienti che erano stati alla base dello slancio socialista delle origini. Si tratta di un universo simbolico di bandiere che le oligarchie odierne non sono ormai più in grado di esibire.

Tocca al campo popolare raccogliere il testimone: organizzare un nuovo progetto di libertà, di ri-presa del controllo del proprio tempo da parte dei subalterni; progettare istituzioni nuove per una nuova libertà.