Crack. Crack. Crack. Le fessure si allargano. Il muro del rifiuto perde un mattone qua, uno là. Alcuni scavalcano e dicono ciò che tutto il mondo sa ma che Donald Trump e i suoi pretoriani ancora negano: Joe Biden ha vinto le elezioni e il 14 dicembre il collegio elettorale lo eleggerà effettivamente presidente. Il 20 gennaio a mezzogiorno giurerà sulla Bibbia di onorare e difendere la costituzione e pochi minuti dopo entrerà alla Casa Bianca.

Nelle ultime 48 ore si sono aperte due crepe nel muro della menzogna: 100 amministratori delegati di aziende e fondi d’investimento hanno scritto una lettera aperta a Trump per chiedergli di ammettere la sconfitta e di permettere che la transizione possa procedere in maniera ordinata. Il messaggio dovrebbe scuotere non tanto il presidente quanto il partito repubblicano che lo sostiene: parte da decine di finanziatori del partito, che non vogliono turbolenze. Di certo una firma come quella di Stephen Schwarzman, il chief executive di Blackstone, ovvero del maggiore fondo-avvoltoio di Wall Street ha il suo peso. Tra le voci riferite dal New York Times c’è anche quella di una minaccia di sospendere le donazioni a favore dei candidati repubblicani al Senato in Georgia, dalla cui vittoria dipende il controllo di questa camera (si voterà in gennaio).

La seconda crepa è venuta da un appello dell’establishment repubblicano che si occupa di difesa e politica estera: firmata da personaggi come John Negroponte, grande architetto di colpi di stato in America Latina e dall’ex direttore della Cia Michael Hayden, la lettera probabilmente non smuoverà di un millimetro il presidente, che ha sempre detestato i cosiddetti «falchi» di Washington (con lui i posti chiave della diplomazia e della sicurezza nazionale sono sempre andati a degli outsider).

C’è poi un manipolo di repubblicani che hanno scavalcato il muro ammettendo la sconfitta, come l’ex governatore del New Jersey e consigliere di Trump Chris Christie, che ha definito «imbarazzanti» i tentativi degli avvocati di Trump (guidati da un caricaturale Rudy Giuliani) di convincere i tribunali che ci sono stati brogli su larga scala.

Tutto questo, però, non farà cambiare idea al vero leader del partito repubblicano che è il presidente dei senatori Mitch McConnell, la cui unica preoccupazione è conservare la sua maggioranza: se questo richiede di fare terra bruciata attorno a Joe “TuttoAndraBene” Biden, così sia. Del resto, squadra che vince non si cambia e negli ultimi 10 anni questa tattica ha avuto eccellenti risultati per i repubblicani: dopo l’elezione di Obama nel 2008, già nel 2010 il partito recuperava il controllo della Camera dei rappresentanti, nel 2014 quello del Senato, nel 2016 la presidenza e nel 2020 il completo controllo della Corte Suprema. Ha paralizzato l’amministrazione Obama con un ostruzionismo costante, su qualsiasi argomento, su qualsiasi nomina, mentendo spudoratamente in ogni occasione e mettendo in dubbio per anni la stessa possibilità per Obama di ricoprire la sua carica, fantasticando che non fosse un cittadino americano ma fosse invece nato in Kenya.

A queste aggressioni i democratici hanno reagito con la politica della conciliazione, rispondendo con timidi squittii ai cazzotti dei repubblicani. Una storia raccontata con molta efficacia dal giornalista Paul Street nel suo nuovo libro Hollow Resistance, La resistenza superficiale, vuota. Oggi Biden persevera su questa strada, moltiplicando i sorrisi di fronte ai tentativi di rovesciare con le pressioni, o con l’appello ai tribunali, il verdetto degli elettori (ha raccolto circa sei milioni di voti popolari più di Trump).

La timidezza di Biden si vede già dalle sue prime nomine: il gruppo annunciato nei giorni scorsi è interamente composto da funzionari che sono con lui da decenni, come il capo di gabinetto Ronald Klain, insieme ad Antony Blinken, che dovrebbe diventare Segretario di Stato, Linda Thomas-Greenfield, nuovo ambasciatore presso le Nazioni Unite e Jake Sullivan, futuro Consigliere per la sicurezza nazionale. In sostanza, le seconde file dell’amministrazione Obama. Ripescato anche l’ex Segretario di Stato John Kerry, che sarà il «rappresentante personale» di Biden per i problemi climatici, mentre si aspetta di ora in ora l’annuncio del nuovo segretario al Tesoro, che con ogni probabilità sarà Janet Yellen, l’ex presidente della Federal Reserve dal 2014 al 2018.

Se questo rassicura i mercati e i grandi giornali, non è detto che l’America profonda sia altrettanto entusiasta: benché Trump amasse i generali (salvo licenziarli come servitori alla prima occasione) una parte non trascurabile del suo successo del 2016 era la promessa di metter fine alle guerre all’estero, in particolare in Afghanistan, che erano iniziate con George W. Bush ma poi continuate con Obama senza sostanziali differenze. Neanche Trump ha riportato a casa le truppe ma viene comunque percepito come qualcuno meno entusiasta di Hillary Clinton o Joe Biden verso le avventure militari all’estero.