La Carrier corporation è stata fondata nel 1915 da Willis Carrier, inventore dell’aria condizionata, la tecnologia che avrebbe reso possibile la crescita demografica di intere regioni geografiche (vedi il sud e sud-ovest Americano e lo sviluppo di metropoli come Phoenix e Las Vegas). Oggi l’azienda è una multinazionale con 45.000 impiegati e filiali in 170 paesi, il maggiore operatore mondiale nella climatizzazione (parte a sua volta del mastodontico conglomerato transnazionale United Technologies, produttore di tecnologie industriali dalle scale mobili ai missili teleguidati).
Quest’anno la Carrier, con tempismo singolarmente infelice, ha annunciato, nel bel mezzo delle primarie presidenziali, la chiusura dell’impianto caldaie e condizionatori di Indianapolis col conseguente trasferimento di 1.400 posti di lavoro a Monterrey, in Messico.

Il video del licenziamento annunciato dal presidente Chris Nelson è diventato virale e la Carrier è diventata simbolo di delocalizzazione selvaggia, biasimata da sindacalisti, politici e dai candidati presidenziali impegnati in una campagna incentrata in gran sul divario sociale e il disagio della «middle class».

Emblematica delle dinamiche e dei flussi della globalizzazione avanzata, la vicenda Carrier ha altresì posto al centro del dibattito i trattati commerciali come questione politica. In un’elezione presidenziale che elabora soprusi, rancori – e disuguaglianze -esasperate dalla truffa finanziaria, i trattati di commercio sono diventati simbolici di un sistema fondamentalmente iniquo. E paradossalmente, ancor più che da sinistra (in Indiana Bernie Sanders ha tenuto un comizio davanti ai cancelli della Carrier) l’attacco ai trattati è venuto da Trump. In questa campagna «asimmetrica», il tycoon (che produce abbigliamento in Cina) ha fatto della Carrier un siparietto fisso dei comizi in cui annuncia con caratteristica foga che da presidente imporrà un dazio punitivo del 35% sull’importazione di prodotti Carrier dal Messico. E la vicenda è figurata anche nel suo discorso di «investitura» dopo il trionfo di martedì scorso. «Queste società pensano di poterla fare franca, produrre all’estero e rivendere i prodotti a casa nostra. Ma le cose stanno per cambiare, ci riporteremo a casa quei posti di lavoro e ce li teniamo stretti!». Nella logica surreale di Trump non è colpa sua se – pure lui – è stato «costretto» a produrre all’estero ; sollevare la questione dei trattati ha il doppio vantaggio di far leva sul livore della «rust belt» deindustrializzata e legare Hillary alla disoccupazione che l’ha devastata. «Non se ne intende di commercio» ha esclamato Trump ad Indianapolis. «E suo marito ha firmato il peggiore accordo probabilmente nella storia del mondo: il Nafta».

Il riferimento è all’antesignano accordo trilaterale di libero commercio fra Usa, Canada e Messico stipulato nel 1994 e che ha favorito l’esportazione massiccia di occupazione verso «mercati del lavoro in via di sviluppo». Joseph Stiglitz, a proposito dei trattati internazionali ha specificato che si si tratta piuttosto di concordati transnazionali fra oligarchie, strumenti di «integrazione economica che compromettono l’autorità (degli stati) sulle politiche interne». La critica di Trump è certo meno articolata. Il suo protezionismo casareccio è quasi certamente illegale ed ha le stesse probabilità di avverarsi della «splendida muraglia» sul confine «fatta pagare ai messicani». Ma la dialettica sloganistica è risultata assai efficace con quella working class esautorata da 30 anni di liberismo rampante. Trump, distanziandosi dall’ortodossia capitalista repubblicana, sa di giocare su questo terreno una carta vincente con elettori profondamente disillusi. E sa anche che gli attacchi alla «clintoniana» Nafta attecchiscono in qui settori blue collar che spera di sottrarre ai democratici. Non è un caso che Hillary, inizialmente favorevole a Ttip e Tpp sia stata costretta ad una precipitosa marcia indietro all’inizio della campagna, schierandosi contro la ratifica.