Ci sono stati gli anni della pixarizzazione della Disney, quando John Lasseter, dopo l’annessione del suo studio a quello di Topolino, diventato il Chief Creative Officer di entrambe le compagnie, si è buttato in prima persona sul rilancio del dipartimento animazione Disney con un’iniezione di idee ed energia che hanno scosso il Roy E. Disney Animation Building (centro nevralgico del lot di Burbank) dal torpore in cui giaceva da anni. Adesso è la volta della disneyzzazione della Pixar, un processo di segno così opposto che lo stesso Lasseter – allontanato dal gruppo – ne è stato vistosamente vittima.

QUALSIASI sequel di una franchise molto amata è atteso con trepidazione; ancor di più se si tratta di una franchise fondante come Toy Story. Dopo essere stati prigionieri di perfide Barbie e aver rischiato la morte nella fornace di una discarica di rifiuti, in Toy Story 3, con un passaggio di consegne drammatico quanto simbolico, i giocattoli di Andy erano stati affidati alle cure di una bambina bruna, Bonnie. Era, per chiunque avesse amato Toy Story e seguito l’evoluzione della Pixar, la fine di un’epoca. Ma uno studio che ormai investe la grande maggioranza delle sue forze nella serialità da blockbuster (Star Wars, Marvel..) quella conclusione malinconica e naturale era piuttosto intesa come l’opportunità di un nuovo inizio. Bonnie lascia spesso il cowboy Woody nell’armadio, preferendo – un grazioso tocco #Metoo – appuntare la sua stella di sceriffo sul petto di Jessie, la cowgirl. Woody non se la prende, basta che la bimba sia contenta. Le è così devoto che, quando Bonnie piange sconsolatamente su un banco dell’asilo che detesta, Woody – in segreto – la aiuta a fabbricarsi un giocattolo con i contenuti di un cestino di carta straccia.

FRUTTO dell’assemblaggio di uno spork (l’incrocio tra un cucchiaio/spoon e una forchetta/fork), con lo stecchino rotto di un ghiacciolo e uno scovolino da pipa, Forky «nasce» con un problema di autostima . «I am trash!», ripete continuamente, scaraventandosi in qualsiasi contenitore di spazzatura all’orizzonte. Ma Bonnie lo ama lo stesso follemente. Ed è inconsolabile quando Forky scompare, inghiottito dai corridoi di un negozio tra l’antiquariato e il robivecchi, ostaggio di una diabolica bambola anni cinquanta assistita da sinistri bambolotti ventriloqui. Come tutti i Toy Story, anche questo quarto capitolo è un’epica avventura dei giocattoli fuori dalla comfort zone della stanza di Andy e (adesso) di Bonnie.

Come gli altri film anche questo introduce una vena sinistra e personaggi originalissimi – Forky, con il suo disagio esistenziale slapstick e lancinante allo stesso tempo, o la versione Pixar della orrorifica Annabelle, Gabby Gabby. Ma la semplicità assoluta che ha fatto dei primi due film dei capolavori e del terzo un kolossal struggente, qui lascia il posto a una frenesia da targeting demografico e a un horror vacui che moltiplica le sequenze d’azione, accelera il ritmo, complica il plot e affolla la storia di sottotrame e giocattoli che non vengono esplorati abbastanza o non sono necessari. Come Walt Disney faceva per i suoi lungometraggi, la Pixar ci ha abituati – per anni- ad attendere e accogliere i (suoi) film come pietre preziose, capaci di distillare in premesse semplicissime le nostre gioie e le nostre paure più profonde. A paragone, Toy Story 4 è un blockbuster del terzo millennio molto ben fatto.