Come finirà il braccio di ferro sulla prescrizione è impossibile dirlo oggi. La strada è lunga e per il momento il leader di Iv è interessato soprattutto a tenere il governo sulla corda, accusando il Pd di essere succube della cultura giustizialista dei 5S. In realtà nella maggioranza, come sul Colle, viene considerato altamente improbabile che si arrivi a una crisi che in questo momento nessuno vuole. Ma questo relativo ottimismo non basta ad abbassare la tensione che, in una certa misura, prescinde dall’esito della sfida sulla prescrizione in sé. In questi giorni si è infatti già dispiegato un disastro politico che segna il fallimento della tattica adottata sin qui da Conte, fondata su equilibrismo e rinvio permanente, sulla fiducia nel tempo come elemento capace di stemperare tensioni e sciogliere nodi prima che arrivino al pettine.

La sensazione, al contrario, è che quei troppi nodi «accantonati» rischino invece di arrivare al maledetto pettine tutti insieme, in una situazione di precarietà permanente che trasforma in chimera il miraggio di una Fase 2 nella quale, retorica a parte, già non crede più nessuno. Del resto, colonna vertebrale della nuova fase dovrebbe essere una riforma fiscale che, al contrario, minaccia di rivelarsi ulteriore fattore di instabilità. L’obiettivo ambizioso di ridisegnare per intero, con forte ispirazione progressiva, le aliquote, abbassando l’Irpef, implica infatti un aumento, sia pur selettivo, dell’Iva. Non ci vogliono doti profetiche per indovinare come reagirà a un disegno del genere Renzi.

Ma ancora prima il governo dovrà affrontare scelte non più rinviabili. Il nodo delle concessioni autostradali, che continua a slittare. Il dramma dell’Ilva, dove resta inevaso il punto dolente degli esuberi. Infine la lacerazione dei 5S. Lo sforzo congiunto di Conte, dei ministri pentastellati e, sia pur tirato un po’ per i capelli, di Crimi ha costretto Di Maio a derubricare la manifestazione contro il governo, inizialmente convocata per sabato di fronte al Senato, in una protesta circoscritta ai vitalizi nella molto meno simbolica piazza san Silvestro. Ma nessuno nella maggioranza si illude che si tratti di qualcosa in più di una tregua. La mossa di Di Maio ha comunque inaugurato una sorta di congresso a cielo aperto che si prolungherà per mesi: al termine del quale il M5S, e dunque la maggioranza, saranno comunque diversi da quel che sono oggi e forse i 5S non saranno neppure più un soggetto unitario.

Ciascuna di queste trappole disseminate sulla strada del governo è il risultato di qualche rinvio che ha spesso finito per ingigantire i problemi e comunque non li ha mai risolti. Da questo punto di vista è eloquente la tempesta che si è scatenata ieri intorno al Mes, la riforma del Fondo salva Stati che già aveva tenuto sulla corda il governo in autunno. Anche in quel caso la strettoia era stata superata grazie a un rinvio fondato sull’ambiguità, con Bruxelles che aveva detto chiaramente di non voler rinviare la firma del nuovo trattato oltre aprile e Roma che fingeva di credere invece in una sorta di rinvio sino a quando non saranno chiari tutti i particolari della riforma complessiva: questione più di anni che di mesi. Ieri fonti di Bruxelles hanno fatto filtrare la decisione, in realtà già ampiamente annunciata, di chiudere con le firme in aprile. Il governo italiano l’ha presa malissimo: il varo della riforma del Mes senza chiarezza sugli altri capitoli significherebbe riaprire la guerra nella maggioranza. Il ministero dell’Economia assicura che la faccenda non sarà all’odg nella riunione dell’Eurogruppo di febbraio.

Conte conferma: «Il Mes non è stato neppure scadenzato (sic) per la riunione di febbraio. Non c’è nessuna novità». La decisione di arrivare alla firma in aprile, in effetti, tutto è tranne che una novità: un guaio che il governo fronteggia, come sempre, puntando sul rinvio e sulla rimozione del problema. È una tattica che non ha pagato sin qui. Difficilmente pagherà in futuro.