A soli sette giorni dall’incontro con i sindacati in cui aveva garantito di utilizzare il contratto di espansione per gestire i sicuri esuberi derivanti dallo spezzatino Tim, il governo Meloni si rimangia la promessa e non rifinanzia lo strumento di politica attiva per il 2024. Nonostante gli emendamenti bipartisan presentati al decreto Milleproroghe alla fine le risorse previste – circa 150 milioni – sono state dirottate sul ritorno dello sgravio Irpef per i terreni agricoli, preferendo dunque la protesta dei trattori a quella dei lavoratori delle Telecomunicazioni, settore che in questi anni sta pagando un prezzo occupazionale altissimo alla concorrenza spietata sui prezzi nel settore.

Per restare alla sola Tim, usando il Contratto di espansione dal 2019 al 2023 sono state garantite uscite verso la pensione di ben 10 mila lavoratori, scesi da 46 mila agli attuali 36 mila.

L’ACCORDO IN VIGORE SCADE però a fine mese e l’impossibilità di rinnovarlo viene denunciato dalla Slc Cgil come una grave minaccia alla possibilità di gestire gli esuberi derivanti dallo spezzatino deciso dall’azienda guidata da Pietro Labriola (primi azionisti i francesi di Vivendi) e avallato dal governo Meloni con la cessione della rete agli americani del fondo Kkr.

In questi mesi moltissimi lavoratori di Tim hanno fatto a gara per spostarci a NetCo, la società della rete, nella certezza che il loro posto sia più tutelato rispetto a SerCo, la società dei servizi. E difatti la scorsa settimana nel tavolo al Mimit il governo ha confermato che per i 20 mila di NetCo la golden power imposta a Kkr contempla la tutela dei livelli occupazionali mentre i 16mila di SerCo sono a rischio.

Sebbene i lavoratori prepensionabili non siano moltissimi – circa mille nella società della rete e molti meno nella società dei servizi – il rinnovo del contratto di espansione li avrebbe garantiti.

LO STRUMENTO È IL PIÙ FLESSIBILE e meno impattante fra quelli previsti dalla legislazione esistente sugli ammortizzatori sociali. Introdotto nel 2019 in via sperimentale, ha avuto più proroghe. Consente di avviare piani aziendali concordati con i sindacati di esodo per i lavoratori che si trovino a non più di 60 mesi (5 anni) dal conseguimento del diritto alla pensione – sia di vecchiaia (67 anni di età) che anticipata (42 anni e 10 mesi di contributi). Per le aziende il costo è ridotto di un importo equivalente alla somma della Naspi (l’ex disoccupazione), per massimo 24 mesi.

Oltre a questo, l’accordo ancora in vigore in tutta Tim prevede una riduzione oraria spalmata su tutti i lavoratori, in media pari a due giornate al mese, con conseguente riduzione – seppur minima – del salario, oramai da tre anni.

Il termine «espansione» si riferisce al fatto che l’azienda – in cambio degli sgravi – è tenuta ad assumere giovani: un lavoratore ogni tre accompagnati a pensione, con annessa formazione.
La denuncia della Slc Cgil contro il governo è molto dura: «Non ci saranno strumenti di politica attiva per gestire la delicatissima situazione di Tim. Un pessimo segnale anche per l’intero settore delle Telecomunicazioni, che sta attraversando una ristrutturazione profonda», attacca Riccardo Saccone, segretario nazionale Slc Cgil. «A questo punto occorre la riconvocazione ad horas del tavolo tecnico al Mimit promesso dal governo il 6 febbraio. Ci chiediamo – continua il sindacalista – come l’esecutivo pensi di gestire questa vicenda e quali impegni reali intenda assumersi», ricordando le dichiarazioni del capo di Gabinetto di Palazzo Chigi sull’assenza di garanzie occupazionale dopo la separazione della rete. «Speriamo davvero – auspica Saccone – che non abbiano prevalso considerazioni elettoralistiche sulla presunta opportunità di destinare questi fondi ad altro. Vorrebbe dire che c’è stata una sottovalutazione drammatica sia su quanto potrà avvenire ai lavoratori dell’ex monopolista, sia sulla tenuta del comparto delle Telecomunicazioni».