«L’orrida convulsione di una rana decapitata»: così Aby Warburg sintetizzava, con evidente ferocia, l’effetto che gli procurava il discorso da lui stesso pronunciato nell’aprile del 1923 davanti ai pazienti e ai medici della clinica svizzera Bellevue di Kreuzlingen, diretta allora da Binswanger, dove due anni prima era stato ricoverato a causa di gravi crisi nervose.

Con quella conferenza avrebbe dovuto mostrare, a se stesso e agli ospiti della clinica, il recupero delle sue piene capacità di lavoro, facendo ordine tra i materiali raccolti durante il suo viaggio in America, verso gli Stati dell’Ovest, per studiare i rituali delle popolazioni Pueblo. Il risultato non soddisfò evidentemente le sue aspettative.
Ma quel giudizio, tragico e icastico ha, se non altro, il merito di condurci nel cuore di alcune osservazioni in cui Warburg caratterizza l’effetto angosciante delle immagini come la percezione di parti di corpo staccabili, caduche, sempre in tensione tra interno ed esterno, organico e inorganico; le immagini sono, come le unghie e i capelli, frammenti di corpo cedibili. Da quale postazione sta parlando Warburg? Da un luogo scomodo e sovradeterminato, in cui recepisce la potenza e l’imprevedibilità delle associazioni deliranti, per illuminare i processi che conducono alla creazione delle immagini. Sostare in questo luogo, senza lasciarsene travolgere, è un’impresa che richiede studio, disciplina, sensibilità e devozione.

In questo stesso luogo elegge la propria dimora un folto gruppo di psichiatri e psicoanalisti appartenenti all’Associazione Lacaniana Internazionale, autori di un importante lavoro corale, Il sapere che viene dai folli Quel che la psicosi ci insegna sull’amore, il corpo, il femminile, l’immagine, la libertà, il linguaggio, il sapere (a cura di Nicolas Dissez e Cristiana Fanelli, DeriveApprodi, pp. 524, euro 33,00).

La follia irrompe come una trafittura che lascia senza parole pur facendosi riconoscere in modo infallibile, eppure le sue singole manifestazioni, prese una per una, ci appaiono spesso prossime alle esperienze «normali». Ad esempio, alcune formulazioni e costruzioni discorsive così cariche di originalità, di neologismi, di brillanti associazioni, isolate dal contesto sintomatico, appaiono indistinguibili dal linguaggio creativo della poesia. Di qui è breve il passo che porta a scambiare la posizione del paziente psicotico con quella del «soggetto supposto sapere», invertendo i ruoli tradizionali del setting analitico. La difficoltà consiste nel non rimanere ipnotizzati dall’irruzione traumatica della follia, confidando nella terapeuticità dell’atto analitico e nella capacità delle costruzioni psicotiche – scrive Jean-Jacques Tyszler – di rivelare, come una lente di ingrandimento, i singoli meccanismi che operano anche in condizioni di normalità, senza tuttavia cedere alla retorica, sempre in agguato, della follia come maestra di vita.

Cosa ci insegna, allora, l’uso delle parole nella psicosi? Se lo domandano i saggi di Marcel Czermak, Claude Landman, Nicolas Dissez, Cyril Veken. Ci suggerisce quello che Lacan aveva intuito con grande precisione, vale a dire che il linguaggio, prima di essere strumento di comunicazione di un pensiero preformato, è strutturazione del pensiero stesso. Ci rivela il meccanismo ferreo del funzionamento della grammatica, anche se ciò accade a scapito della semantica. Mostra la parentela tra la formazione di neologismi e i fenomeni dell’automatismo mentale studiati da de Clérambault. Evidenzia inoltre come la spazialità del folle sia una spazialità linguistica e il tempo abbandoni la dimensione della linearità per strutturarsi nell’après coup, scrivono Stéphanie Hergott e Eduard Bertaud.ùSvela i processi costitutivi della creazione di immagini, su cui si concentrano Danièle Brillaud, e Angela Jesuino-Ferretto, e quelli dell’amore transferale, che occupano i saggi di Nicolas Dissez e di Patrizia Piunti. Fa campeggiare l’enigma del passaggio all’atto e del desiderio femminile, di cui si occupano Muriel Drazien e Choula Emerich. Sono solo alcuni dei temi affrontati in questo libro ricchissimo, scritto con passione narrativa e con una cura che si trasferisce anche alla bella veste editoriale, aspetto niente affatto trascurabile.