La metafora è un’arte della guerra che plasma anche la politica interna. È un’arma contundente che produce effetti reali, non solo parole agghiaccianti. Si ricorda la «guerra alla droga» che negli Stati Uniti ha trasformato le scuole in campi di battaglia. Oppure la «guerra al crimine» che ha militarizzato la vita civile e ha armato le forze di polizia. E poi c’è la metafora della droga. In Italia la prima volta è stata usata con una grande forza polemica da Giorgia Meloni, un anno prima di diventare presidente del consiglio. Allora, dall’opposizione, Meloni disse che il «reddito di cittadinanza» era un «metadone di Stato». Voleva dire che bisognava eliminare quel sussidio malconcepito, ma pur sempre necessario, spacciato dallo Stato. E lo ha fatto: oggi sono centinaia di migliaia di persone ad avere perso il sussidio. Non sono più «dipendenti». Devono trovarsi un lavoro. Persone che non lo hanno da anni e non rientrano facilmente sul «mercato». Oggi sono ancora più povere. Le parole fanno male, in tutti i sensi. Non solo a chi soffre di una dipendenza, ma anche a chi viene patologizzato, insultato e escluso da una tutela sociale.

Ieri il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti ha riusato di nuovo la metafora della droga a proposito del Superbonus. «Da questo tipo di droga economica bisogna uscire – ha detto – Purtroppo la disintossicazione è dolorosa, ma qualcuno la deve fare». E, sul filo dell’analogia, ha ricordato la storia di «Ben Johnson che ha vinto le Olimpiadi con il doping». È come paragonare l’Italia che usciva dalla pandemia, senza avere risolto nessuno dei suoi problemi com’è oggi evidente, allo sprint del corridore canadese. E il «doping» è come il «Superbonus», quello che il governo Conte 2 ha varato per spingere artificialmente la crescita nella «gara» del Pil tra gli Stati. Come nel caso di Meloni sul «reddito di cittadinanza», anche in quella usata ieri da Giorgetti emerge un significante capitalista: la vera «cura» contro la dipendenza (il bisogno) è il mercato. Nel caso di Giorgetti si aggiunge la necessità di gestire i conti. Un problema che è diventato drammatico quando, un anno fa, è cambiata la modalità di registrazione dei costi del Superbonus. è a questo problema che Giorgetti ha cercato una soluzione imponendo ad Antonio Tajani e a Forza Italia lo «spalma crediti» a 10 anni. Senza il Superbonus costerebbe al bilancio pubblico «30 miliardi circa ogni anno per i prossimi 4 anni». In pratica, una legge di bilancio all’anno: 2% del Pil. In dieci, l’impatto sarebbe inferiore.

Il tasso di conflittualità condensato in questo dibattito allucinante è notevole. Ieri, per esempio, Giorgetti è stato paragonato a un «pusher». È successo quando la senatrice Elisa Pirro ha ribaltato l’accusa non proprio metaforicamente leggera rivolta a chi, come i Cinque Stelle, difende il Superbonus. Per l’Enea, avrebbe generato 900mila nuovi occupati, 373mila posti di lavoro in più rispetto al 2019 e 527mila nuovi posti di lavoro nell’indotto. Anche se molti, a tale proposito, segnalano il rischio di un effetto-bolla: una volta passato il sussidio, la bolla si sgonfia. «Consigliamo a Giorgetti – ha detto la senatrice 5S – una buona comunità di recupero, ma solo dopo aver scontato la sua pena, dato che è stato il pusher del Superbonus per oltre tre anni».
Giorgetti, in realtà, ricorre spesso alle metafore tossicologiche in politica. Era il 24 aprile quando ha detto che il «Patto di stabilità» Ue, un vero problema per l’economia italiana che lui ha dovuto accettare «non risponde ai criteri di coloro che pensano che la crescita dipenda dal modello “Lsd”, e cioè lassismo, debito e sussidi». Per lui la crescita passa «attraverso sacrificio, investimento e lavoro». Il giorgettismo è fondato su un’idea di etica protestante. Fare la lezione ai «lazzaroni» che usano «Lsd» serve a dichiarare una superiorità morale, in fondo di classe. Soprattutto quando, come in Italia, pochi problemi sono risolti definitivamente, gli investimenti sono pochi, il lavoro è povero. E non ci sono risorse. In questi casi restano solo le metafore.