Il nostro giro in macchina inizia di mattino presto da Piazza Roma, che è il centro della città, dove c’è la statua di Pomodoro e la Torre littoria con la finestra, ora murata, da dove si sporgeva per parlare tronfio e impettito il duce: divide in due la cittadella operaia di Carbonia dalla zona più residenziale dei dirigenti con le villette, una netta cesura urbanistica di classe. Quando arriviamo nei pressi della Grande miniera, Marco Grecu, sindacalista storico di queste parti e una delle scatole nere del Sulcis, figlio di minatore anche lui, mentre lavora di sterzo, rallenta l’andatura della Tipo, mi dice: «Vedi, quella è la lampisteria, dove l’operaio consegnava la medaglia e gli davano la lampada». Piccolo di statura, sguardo serio e fiero, racconta instancabile l’epica del lavoro di questa terra.

Viaggiamo nelle piccole arterie che si perdono nel paesaggio, ci spostiamo in strade strette e poco trafficate, ai nostri lati un territorio selvatico, fatto di roccia e macchia mediterranea, che stringe fino a soffocare. «Essendo questa una prima zona emersa anche dal punto di vista geologico, il territorio ha da sempre una vocazione mineraria», sostiene mentre transitiamo lungo la statale 126 che porta fino ad Iglesias, e a sinistra vedo possente l’altopiano del Monte Sirai. Questa è zona di minatori e di miniere, la stessa cittadina è tutta scavata nel sottosuolo (al Museo ho visto un quadro con tanti cunicoli che sembra la mappa di una metropolitana), a Nuraxi Figus hanno lavorato talmente a largo raggio spingendosi addirittura fino al mare, ma ora l’ultimo sito italiano in attività è fermo, rischia la dismissione, anche lì si preparano alla lotta. «Sono figlio di un minatore, già da bambino vivevo la vita delle miniere, qui sono nate le prime battaglie sindacali e il primo sciopero nazionale di tutte le categorie, ci sono stati degli eccidi, a Bugerru, Gonnesa, sapere che in Sardegna non c’è una miniera in produzione è come se sparissero i pastori. Ma è nei momenti difficili che si vede il legame che c’è tra i minatori, sono sicuro che uniti riusciremo a tenerla aperta», mi ha detto ieri con gli occhi lucidi a 500 metri sotto il suolo, nelle viscere della terra, Sandro Mereu, operaio della CarbonSulcis.

Un piccolo far west

Da questa parte della provincia più povera d’Europa, 130.000 abitanti e 30.000 disoccupati, 40.000 pensionati dell’industria, ultima risorsa per la sopravvivenza sociale, c’è il bacino del carbone, e nei siti dell’iglesiente quello metallifero di Flumini, Bugerru, fino ad Arbux e Ingurtoso: da metà dell’ottocento, con le concessioni regalate a padroni francesi, belgi e tedeschi, è stata terra di conquista, un piccolo far west del capitalismo europeo, poi sito energetico nevralgico dell’autarchia mussoliniana, quando la città fu costruita nel 1938 intorno alla miniera di Serbarìu, e da 4000 abitanti la popolazione lievitò fino ai 45000 del 1951, vennero qui da tutte le parti del paese, fino agli anni ’70 quando il distretto minerario che dava lavoro a oltre trentamila persone ha cominciato a perdere mercato, sono iniziati i licenziamenti, le chiusure e la crisi, che qui c’è sempre stata insieme alla rara capacità di resistenza di questa gente rocciosa, abituata alla fatica e alle lotte sociali.

Quando scorgo la zona industriale di Portovesme in lontananza, prima del mare di Portoscuso, mentre Marco continua a guidare lento, superati gli spalti con le bianche silhouette delle pale eoliche sulle colline limitrofe, appaiono agglomerati in cemento, silos, fumaioli. Secondo una visione industrialista, qui molto condivisa, è un puntino insignificante della cartina geografica, anche se tutta questa zona è considerata ad alto rischio ambientale e non è certo uno spettacolo davanti a un mare così (anche se poi, proprio per questo, le aziende sono state costrette a investire di più in tecnologie per l’ambiente), ma è stata una necessità, un modo delle Partecipazioni statali per riconvertire con il polo dell’alluminio e creare posti di lavoro; perché qui non c’era altro: tutto il resto, dall’agricoltura alla pesca, era stato abbandonato o marginale, poco sviluppato il turismo, poi con le privatizzazioni degli anni successivi sono arrivate a dettare legge le multinazionali e il mercato globalizzato neoliberista.

L’Euroallumina sembra un luogo fantasma, c’è un silenzio impressionante, quello delle fabbriche morte. Se non sapessi che dentro ci sono gli operai che lavorano stenterei a credere che qui si fanno lavori di manutenzione per tenere la fabbrica in attività. Quando parcheggiamo e superiamo il cancello, poco più avanti ci vengono incontro tre sindacalisti delle Rsu, ci stringono la mano invitandoci ad entrare nella piccola stanza riservata ai sindacati. Uno di loro dice scherzoso: «Non ci sono le tigri e i giaguari, state tranquilli», come a dirci che se uno s’immaginava una giungla, un cimitero dell’industrializzazione, deve aspettarsi qualcosa di molto diverso, la proprietà russa, la Rusal, è rimasta col suo management, non è fuggita come le molte «mosche del capitale», e loro non mollano.

I caschi con i quattro mori

Quando ci sediamo iniziano a raccontare. «Questa fabbrica è nata negli anni settanta come raffineria di allumina, qui si estraeva l’ossido di alluminio dalla bauxite in un progetto di filiera e affiancava l’Alcoa, che produceva quello fuso, e ancora altre fabbriche del territorio che realizzavano i laminati e i profilati», mi spiega Gianmarco Mucci, un ragazzo con un pizzo curato e gli occhi svegli, mentre si toglie l’elmetto arancione dalla testa. I caschi dei lavoratori del Sulcis con il distintivo dei quattro mori sono diventati il vero simbolo della resistenza in questi anni. Quello che colpisce di questi lavoratori è la capacità di conoscenza tecnica della fabbrica e della produzione, le potenzialità di innovazione da loro stessi suggerite. «Qui il ciclo di produzione delle terze lavorazioni non si è mai completato, mancavano i prodotti finiti, le pentole, i cerchi in lega,» aggiunge prendendo la parola Antonio Pirotto, «una scelta di politica industriale che ha portato le lavorazioni più ricche in altre parti d’Italia, a noi hanno lasciato il lavoro sporco». La fabbrica è ferma dal 2009, con cassa integrazione per i quasi 500 dipendenti e oltre 300 dell’indotto, nonostante raffinerie come questa siano ancora attive in Francia, Spagna, Germania, nella verde Irlanda. «Il primo risultato ottenuto dopo anni di lotta è un protocollo d’intesa firmato con quattro ministeri italiani, nel quale è individuata la linea per la ripresa della produzione.

Il problema principale è quello di produrre energia a basso costo, allora si è pensato di realizzare una caldaia a carbone ad alta efficienza tecnologica con la metà delle emissioni consentite dalla Comunità europea», spiega ancora Marco. Ci tengono a precisare che la questione ambientale per loro è fondamentale. «Dobbiamo rispettare noi stessi e quelli che ci vivono vicino, non barattiamo il posto di lavoro mettendo a repentaglio la nostra salute, quella dei nostri figli e di tutti», continua Antonio, raccontando che in molti altri posti scaricano ancora a mare i rifiuti, ma qui non si fa più da trent’anni: «perché i tonni avevano smesso di passare in queste acque, e noi abbiamo l’unica tonnara del mediterraneo». Ogni volta invece di finire il parlatorio ricomincia, si rianima all’improvviso. Si sentono perseguitati dalla famosa telefonata di Berlusconi a Putin: «Ci hanno fatto passare da allocchi, ma qui lo scetticismo si tagliava a fette, e nessuno di noi lo votava».

Gli operai dell’Alcoa da qualche giorno sono tornati di fronte ai cancelli, davanti a quattro grandi silos, le strutture di tubi dello stabilimento. Quando arriviamo, dopo aver parcheggiato sul piazzale, stanno finendo di montare una grande tenda azzurra, e sul prato antistante campeggiano altre canadesi di diversi colori. Parlano in piccoli gruppi quando ci sediamo sulle panche, allora altri si avvicinano. Il clima è completamente diverso da quello dell’Euroallumina, i visi di questi uomini sono tesi, preoccupati, qualcuno non nasconde l’angoscia. «Siamo in attesa» dice un operaio biondo, «la Regione intende spostare la nostra vertenza a Palazzo Chigi, interessare direttamente il Governo». Un altro operaio robusto, scuro di carnagione, dice stizzito: «Il dramma è che questa vertenza si è addormentata». Riprende la parola quello biondo: «Negli ultimi mesi gli incontri sono stati più volte rimandati, è stato necessario fare questa azione. E stai sicuro non ci fermeremo qui se non ci saranno risultati». Un altro sulla cinquantina, occhialini rettangolari, dice: «Devono capire che in questo territorio c’è un dramma, abbiamo la cassa integrazione fino a gennaio, quelli delle ditte d’appalto da sei mesi non ricevono un euro, c’è gente disperata che non ce la fa più». Si lamentano della scarsa attenzione dei politici: «Siamo andati da tutti, abbiamo fatto il giro delle sette chiese, ma di noi si parla solo quando c’è la campagna elettorale» dichiara un altro di loro, fuori dalla tenda. Poi ci raggiunge il delegato della Cgil Bruno Usai, è il fratello di Sergio, sindacalista molto amato e storico militante comunista scomparso qualche anno fa.

«Schiavi di una multinazionale»

Voce pacata, capelli lunghi neri con una frezza bianca al centro, con pazienza ricompone la travagliata storia di questa fabbrica che ha chiuso nel 2010 quando la multinazionale americana ha deciso di ridurre le quote di mercato.
Siccome lo stato italiano non gli garantiva più determinate condizioni, soprattutto nell’erogazione di energia elettrica, che qui costa il triplo di altre parti d’Europa in quanto la centrale dell’Enel produce con una caldaia di concessione obsoleta, ha deciso per il fermo. Il risultato sono quasi mille operai in cassa integrazione con quelli dell’indotto, un’assurdità per una azienda che darebbe ancora utili e non riesce da sola a coprire il fabbisogno nazionale di alluminio.

«Siamo schiavi di una multinazionale, capisci?», mi dice Bruno, senza perdere la calma, gesticolando con le mani. «Perché ci sarebbe una vendita in corso, ma non capiamo se è una vendita reale o mascherata. Secondo noi l’Alcoa non vuole cedere queste quote di mercato. Per una questione strategica vuole chiudere lo stabilimento senza però permettere che altri producano alluminio in Italia, il governo deve intervenire. Noi non abbiamo altre alternative. Oppure» dice sconsolato, «prendi la valigia e parti. Ma dove vai adesso? Oggi i lavori generici sono in mano ai lavoratori del terzo mondo, neanche un posto da lavapiatti si trova, c’è gente che non arriva alla fine del mese, molti hanno ritirato i figli da scuola. Senza la fabbrica non c’è vita qui».
Le forme di lotta sono state tante, per farsi ascoltare questi lavoratori irriducibili sono entrati come furie sulle piste all’aeroporto di Cagliari per fermare gli aerei in atterraggio, due di loro salirono per protesta su un silos a 70 metri di altezza, hanno dovuto persino bloccare le navi gettandosi coraggiosamente in mare.

La musica come resistenza

Un’altra forma di resistenza è stata quella della musica. A cominciare da Rockbus, una vecchia corriera di linea parcheggiata da altri operai cassintegrati come presidio davanti alla fabbrica Rockwool per controllare che lo stabilimento non fosse smantellato e portato in India, come poi è accaduto. «Inizialmente non pensavamo dovesse durare quattro anni» racconta Tore Corriga nel pomeriggio alla Camera del Lavoro, un ex albergo operai della miniera ristrutturato, che adesso si occupa di siti archeologici per una società della Regione. «Eravamo una trentina, ma molto determinati, fissi lì, ogni giorno, abbiamo dovuto inventarci di tutto. Così è venuta fuori l’idea del bus, poi sono partiti i concerti ogni sabato, sono venuti gruppi da tutta la Sardegna. Era un modo per rimanere vivi, ci dava la carica. Se ogni giorno arriva qualcuno, resisti». Lo chiamano rock metalmeccanico, gruppi che si sono formati nel cuore della fabbrica, come gli Intreccio, anche loro minacciati dalla crisi. Il loro nuovo video, molto inquietante, tocca il tema dei suicidi, che qui sono stati diversi tra chi ha perso il lavoro, ma quello precedente lo hanno realizzato alla Metallotecnica, una delle prime fabbriche dismesse di Portovesme, con la canzone «Combattere», che è stata ed è ancora una bandiera nelle manifestazioni sindacali. Sono musicisti di lunga data, supporter di gruppi pop degli anni ’70 e di cover. Marino Usai mi racconta di questa energia che sentivano dentro quelle mura, «quasi quelle delle persone che ancora lavoravano e hanno dovuto subire la fame, il disagio sociale, lo sfruttamento. Invecela nostra sala prove è da trent’anni proprio sotto i nastri dell’Eurallumina, da lì dentro abbiamo sentito spegnersi progressivamente tutti i rumori delle fabbriche e del lavoro» dice sconsolato.

Il sound dei tesserati Fiom

I Golasecca, tutti tesserati Fiom, si sono incontrati durante le pause pranzo alla mensa aziendale. All’inizio per il piacere di suonare, poi la loro si è trasformata in una reazione alla chiusura. «Siamo tutti dipendenti Alcoa in cassa integrazione, ma noi vogliamo lavorare non ci piace essere degli assistiti, la dignità prima di tutto, e volevamo dirlo. Roberto, addirittura è senza nessuna tutela, essendo un interinale» dice il chitarrista Marco Cadeddu. Il cantante barbaricino e istrionico del gruppo, barba lunga nerissima e tratti somatici marcati, confessa che quelli come lui erano costretti a lavorare di più: «La precarietà è un ricatto, eravamo ottanta, sempre in scacco matto, facilmente ricattabili dall’azienda, contratto ogni tre mesi, sabato al lavoro». Il nome iniziale era Golasecca, viene da suo nonno, che si è trasferito qui per lavorare in miniera da Barigadu, dal centro Sardegna. Mi racconta che questo suo antenato viveva in un paesino, Ulà Tirso. In sardo ula è la gola, quindi la gola del Tirso. Quando era bambino ci fu la grande crisi idrica nella regione, e il lago in estate si riduceva a una gora. «Lui si avvicinava a mia nonna e diceva: “Zicchina, oc annu puru sa ula est sicca“, cioè Franceschina, anche quest’anno la gola del fiume è secca, allora ho proposto questo nome. Se tu hai sete vai a cercare l’acqua, e per noi sardi che siamo radicati in quest’isola significa voglia di cercare, di trovare con la sete che ti spinge». Roberto Cossu mi mostra la maglietta che indossa, c’è scritto «Meglio banditi che schiavi nella nostra terra».

Come scriveva Paolo Volponi nelle Mosche del capitale: «La città è peggio della fabbrica. Anche se la fabbrica è imbattibile come cattiveria e prepotenza. Adesso può permettersi anche di licenziare. Dopo che ti ha sfruttato e istupidito, ti butta fuori. Ti rimanda in una di queste vie». Ma la lotta di questi operai, tutti discendenti da una razza di minatori del Sulcis-Iglesiente, per questa forza antica che viene dal passato non si ferma, continua, senza più classe e senza partito, in questi tempi cupi di smarrimento e crisi.