Se ne riparla il mese prossimo, dopo il 2 maggio. La delega fiscale, che si trova in commissione alla Camera dal 17 novembre ci resterà ancora un po’. Doveva sbarcare in aula martedì prossimo ma serve tempo per tradurre in limature il quasi accordo raggiunto ieri mattina nell’incontro tra un Draghi che non aveva alcuna intenzione di forzare rischiando la crisi e i leader del centrodestra, terrorizzati dal voto anticipato.

IL VERTICE, ANTICIPATO da una riunione dei gruppi leghista e forzista che per un attimo aveva fatto temere un vero scontro, dura un’ora e mezzo. Ci sono Matteo Salvini, Antonio Tajani, Maurizio Lupi, Lorenzo Cesa più l’intera brigata dei capigruppo. L’ordine del giorno prevede che si parli solo di fisco e non di Csm: meglio non mettere troppa carne al fuoco. All’uscita sorrisoni e dita metaforicamente alzate a V. «Clima costruttivo con Draghi ampiamente disponibile a risolvere i problemi», giubila Salvini. Appena più cauto Tajani: «Ci rivediamo dopo pasqua e ci auguriamo che si trovi una soluzione positiva. Vogliamo che il governo vada avanti». Vuole la stessa cosa Draghi e glielo ha appena detto: «Io vado avanti», appunto. La chiave del quasi accordo è tutta qui, non in una revisione della delega che sarà più cosmetica che sostanziale. Pd, Meloni e Calenda ironizzano: «Teatro». Non sono lontani dalla realtà.

SALVINI IN REALTÀ la sua richiesta di massima la ha avanzata: «La commissione dovrebbe poter esprimere un parere non solo consultivo sui decreti attuativi». Nemmeno a parlarne. La delega, a quel punto, non sarebbe più tale. Non è un particolare: era quella la sola via, oltre lo stralcio, per tornare indietro sulla riforma del catasto, il vero piatto indigesto per la destra. Ma quella strada è bloccata e lo stralcio pure. I battenti di palazzo Chigi ancora non si erano chiusi alle spalle del gruppone e già le agenzie di stampa si riempivano di indiscrezioni sul no di Draghi allo stralcio. I leghisti si risentono, ribattono: «Non lo abbiamo mai chiesto». E’ vero, anche perché sapevano perfettamente che sarebbe servito solo ad alzare una indesiderata tensione senza approdare a nulla.

DI CATASTO PERÒ si è parlato molto, anche più di quanto non si aspettassero i convenuti. Il premier, dottorale, si è prodotto in una specie di storia del catasto più o meno dall’impero austro-ungarico ai giorni nostri, lasciando i presenti letteralmente ammutoliti. Le conclusioni di Draghi sono state però più attuali: nessuna intenzione di alzare le tasse, ma il nero deve emergere, sennò la riforma a cosa serve? I leader mettono sul tavolo il rischio che, con i nuovi estimi, qualcuno si ritrovi a dover pagare molto di più. Il problema è tutto lì: nel valore aumentato di abitazioni accatastate molto al di sotto di quanto sarebbe dovuto oggi. Anche qui il premier è drastico.

Il valore di mercato deve venire fuori, è un pilastro della riforma come l’emersione del nero. Ma se i tecnici dei partiti scovano una formula che, salvaguardando quei due capisaldi, mette nero su bianco che le tasse non aumenteranno il governo non avrà nulla in contrario ad accoglierla e anzi si metteranno al lavoro anche gli uffici del ministero.

SUL REGIME FISCALE duale, altro cavallo di battaglia della destra e soprattutto del Carroccio, l’accordo è meno posticcio. Bisognerà attenuare il testo per garantire che non ci saranno aumenti delle tasse su affitti e bot ma su quel fronte la destra non prova ad affondare e Draghi non oppone una resistenza blindata. Finisce a tarallucci e vino, anche se bisognerà lavorare molto per tradurre il quasi niente strappato da Salvini e Tajani in norma. I 5 Stelle però drizzano le orecchie: «Valuteremo il nuovo testo e vedremo». Ma anche per loro, come per la destra, la difesa delle bandiere identitarie è per ora questione di facciata. Sino a quando non diventerà una faccenda di sostanza, se mai capiterà, il governo, con qualche inciampo e qualche rallentamento, «andrà avanti».