Un doppio ventennale: le commemorazioni dell’11 settembre 2001 si incrociano con la fine della guerra iniziata l’8 ottobre di quello stesso anno. Biden avrebbe voluto far coincidere perfettamente i due eventi, proponendo di concludere il ritiro dall’Afghanistan questo 11 settembre.

Poi ragioni diverse lo hanno portato ad anticiparlo al 31 agosto. La decisiva, forse, è stata quella di poter salutare separatamente e per prima la chiusura dei conti con la guerra e averla alle spalle nei discorsi commemorativi. Se è così, bisogna dire, le cose non sono andate come Joe Biden sperava.

Una volta di più, il sipario non è stato chiuso, è crollato su chi pensava di manovrarne i tiranti senza impacci. Gli ultimi giorni di quest’altra guerra insensata hanno rappresentato, in piccolo, l’intero disastro militare, politico, strategico del conflitto voluto dagli Stati Uniti e condotto per vent’anni insieme con i loro alleati.

Va dato merito a Biden di avere fatto quello che i suoi predecessori avevano promesso ma hanno avuto paura di fare. E nonostante che sia chiara da tempo l’ostilità degli statunitensi nei confronti della guerra in Afghanistan, in questi tempi di memoria corta è lui che ha pagato per la mortificazione della sconfitta e per la «brutta figura» della ritirata.

«Io non manderò un’altra generazione di americani a fare la guerra in Afghanistan», aveva affermato Biden a luglio. Che si trattasse di una «guerra invincibile», come ha detto, in cui «non era possibile una risoluzione militare», lo pensavano anche Obama e Trump e soprattutto la maggioranza degli statunitensi. Per questo Donald Trump aveva aperto le trattative diplomatiche con i Talebani concluse con gli accordi di Doha del 20 febbraio 2020, che prevedevano il ritiro di americani e alleati entro il 1° maggio 2021.

Nell’anno delle elezioni, Trump puntò sull’«effetto annuncio», come Nixon quando proclamò che «la pace è vicina» per garantirsi la rielezione nel 1972. Però Trump non fece nulla. È toccato a Joe Biden affrontare gli inevitabili problemi dell’abbandono di Kabul. Per la caoticità e drammaticità degli eventi finali ha subito critiche, in buona parte motivate. Il fatto, poi, che in un attentato dell’Isis-K all’aeroporto siano morti anche tredici militari americani ha permesso a Trump e ai suoi di maramaldeggiare.

In un tripudio mediatico di nazionalismo ferito e di demagogia opportunistica, la popolarità di Biden è quasi crollata nei sondaggi.

In risposta alle critiche e all’impennata emotiva sollevata contro di lui, il Presidente si è difeso il 31 agosto, dopo che l’ultimo aereo aveva lasciato l’Afghanistan, con un discorso in cui ha rivendicato di avere evacuato il 98 per cento degli americani che volevano partire e oltre 120.000 afghani «amici».

Non ha potuto negare il caos e la drammaticità dei giorni precedenti, e alla domanda, «Si sarebbe potuto fare tutto in modo più ordinato?», ha risposto: «Non c’è evacuazione dopo la fine di una guerra che possa essere attuata senza incorrere nelle complessità, sfide e minacce che abbiamo fronteggiato. Nessuna». Ma ha anche ricordato i dati «storici», coperti in quel momento dall’emotività legata agli eventi immediati: altri hanno iniziato e condotto quella guerra per vent’anni, altri hanno promesso di finirla e non lo hanno fatto e 5000 talebani rimessi in libertà da Trump sono ridiventati subito combattenti anti-americani.

A distanza di giorni, i sondaggi saranno riportati in alto dal richiamo patriottico a condividere il penoso ricordo dell’11 settembre e dal ritorno a una pacata consapevolezza che i morti e le spese di vent’anni di guerra sono finiti.

Tuttavia, questo resterà un «9/11» più difficile e diviso che mai. La «catastrofe disorganizzata» del ritiro «renderà cupo l’anniversario», ha scritto il New York Post di Rupert Murdoch. Iperboli al servizio della linea antibideniana del giornale, senza dubbio. È comunque inevitabile che le preventivate note di orgoglio per avere chiuso la guerra siano costrette a una chiave di basso dagli ultimi contraccolpi afghani. Ma più in generale è il patriottismo degli statunitensi – da sempre nazionalistico e spesso sciovinista – a essere attraversato da fratture profonde.

Da un lato, negli anni è andata crescendo in gran parte del paese una sorta di distacco verso quegli eventi che visti da lontano appaiono sempre più «di New York», non di tutti.

Dall’altro, le ultime elezioni hanno mostrato come, nel paese diviso, la distanza fisica dalle metropoli, New York in testa, possa tradursi in estraneità politico-culturale. E la divisione ideologica e politica strategicamente alimentata dai repubblicani negli ultimi dieci anni porterà molti a vedere come «cosa d’altri» cerimonie che vedranno in prima fila governanti nemici: sindaco della città, governatrice dello stato e Presidente, tutti democratici.