L’Italia è sotto pressione, c’è poco da fare. Può piacere o meno che l’autonomia di un governo possa essere minata dalle scelte e dai giudizi dei mercati obbligazionari (e delle agenzie di valutazione).

Ma questo è il quadro nel quale è costretto a barcamenarsi un paese che non ha più gli strumenti per difendersi da attacchi speculativi (invero, le forze erano deboli anche prima di entrare nell’euro) e puntellare, all’occorrenza, le proprie finanze pubbliche.

SBAGLIANO coloro che irridono all’allargarsi dello spread tra i nostri titoli di stato e quelli di altri paesi europei, a cominciare dalla Germania.

Combattere per un’Europa affrancata dalla dittatura dei mercati non implica, nell’immediato, la sottovalutazione degli effetti che una dinamica al rialzo dei tassi di interesse sul debito potrebbe avere sull’intero sistema, ben oltre la sostenibilità dei conti pubblici.

È noto che nella fase più acuta della crisi, le banche italiane hanno fatto incetta di titoli pubblici grazie alla liquidità a basso costo concessa loro dalla Bce con specifici programmi di rifinanziamento (Longer Term Refinancing Operation). Un affare, considerando il differenziale tra il tasso accordato alle banche (sotto l’1%) ed i rendimenti dei titoli di stato in quel frangente (fino al 5%).

STA DI FATTO che oggi le banche italiane hanno la pancia piena di titoli del tesoro, nonostante la purga del quantitative easing. Una cifra monstre: 373 miliardi di euro (il 10% dei loro assets). Attività iscritte in bilancio il cui valore reale, oggi, non è più quello di partenza: se i rendimenti salgono, il valore del titolo scende.

È quello che sta accadendo in questi giorni, con lo spread che si è portato fin sopra i 340 punti base (rendimento sul decennale al 3,7%). Per rendere l’idea della pericolosità di questa spirale, basta ricordare che siamo a meno di 70 punti dal differenziale tra bund tedeschi e titoli di stato greci, che rendono poco più del 4%.
Oltre una certa soglia, le banche vedrebbero scendere i loro «indici patrimoniali» sotto i livelli minimi richiesti dalla Bce, con la conseguenza di dover ricorrere ad «operazioni straordinarie» per rifinanziarsi, ovvero per coprire i buchi di bilancio determinati dalla caduta del valore dei titoli posseduti.

INTANTO, incombono i pronunciamenti delle agenzie di rating. A fine mese, tra il 26 e il 31 ottobre, sull’affidabilità del nostro debito pubblico si esprimeranno le società americane Standard & Poor’s e Moody’s, col rischio di un declassamento dello stesso. Nell’era della globalizzazione e della finanziarizzazione dell’economia una società privata di rating può tenere in scacco uno stato sovrano. Terribile, ma è così.

Queste agenzie sono le stesse che hanno certificato l’affidabilità dei titoli spazzatura americani contribuendo alla catastrofe del 2007-2008? Sì, ma un loro giudizio troppo negativo sulla qualità delle nostre obbligazioni potrebbe farci davvero male.

UNA CADUTA dei nostri titoli nel girone dannato dei «non investment grade» (investimenti a rischio, speculativi) comporterebbe non solo un’esplosione dei loro rendimenti (più soldi agli speculatori, meno ai cittadini), ma anche guai seri per il settore bancario, che non potrebbe più attingere alla liquidità agevolata della Bce dando in «garanzia» titoli del tesoro (e fuori in anticipo dal quantitative easing). Una situazione «greca», che avrebbe un unico sbocco: la sottoscrizione di un memorandum con le istituzioni europee: prestiti in cambio di riforme strutturali ed austerità. Oppure l’uscita dall’euro.

FORSE LE NOTE agenzie di rating non affonderanno in profondità il coltello. Forse. E’ bene ricordare, nondimeno, che attualmente il nostro debito è già classificato di «media qualità» e a «rischio futuro» (la tripla A l’abbiamo persa nel lontano 1991). Manca una sola casella per il girone dei «debiti speculativi» e ad alto rischio. Appesi a un filo.

Gli Stati, fin dall’antichità, hanno avuto problemi con i debiti (non fecero eccezione gli stati socialisti). Ma siamo lontani dai tempi dell’antica Roma, quando il debito si estingueva con la morte dell’imperatore, ovvero da quelli più «recenti» di Edoardo III d’Inghilterra che mandò in rovina i banchieri fiorentini (XIV secolo).

I rapporti di forza, ora, si sono rovesciati.

E se il tema della «tirannia del debito» rimane, la stessa non si può certo contrastare facendo «ammuina».