Pare facile girarsi dall’altra parte e andarsene per la propria strada camminando lungo il bagnasciuga per chilometri, lasciando dietro di sé solo impronte nella sabbia, come fa Delia, la quarantenne madre di famiglia, protagonista di Per puro caso di Ann Tyler, sopraffina scrittrice americana che seguo da molto. Forse meno facile programmare la propria dipartita per settimane senza farsene accorgere, tenere a bada il bufalo che si sente scalpitare dentro, buttare quattro stracci in uno zaino e salire su un aereo con un biglietto di sola andata per l’Australia. Questa la sinossi del bel libro di Catherine Lacey, Nessuno scompare davvero(Sur, la casa editrice di Marco Cassini separatosi da Minimum fax).

 

 

Cosa sia l’angoscia esistenziale non lo sa nessuno, io meno di tutti. Non perché non la conosca personalmente, piuttosto perché le cause e i fattori scatenanti sono talmente individuali che farne una teoria penso sia piuttosto elaborato pure per uno psichiatra che ha studiato anni (sicuramente ne esistono volumi pieni).
Rappresentare con una immagine simbolica il proprio malessere interiore è un fenomeno tipico, un topos della letteratura da quando qualcuno ha pensato bene di buttare su carta i propri disagi pur di non esserne soffocato.

 

 

L’alter ego kafkiano Gregor Samsa una mattina al risveglio si ritrovò trasformato in scarafaggio: peggior incubo non si può immaginare. Quel che è dentro che esce fuori e diventa noi stessi, lasciare libera la bestia che è in noi, ammettere di poter essere contenitori di mostri, di diavoli, di orrori non condivisibili con onore e fierezza.
La depressione è una malattia. La malattia mentale porta gravi conseguenze nelle esistenze delle persone e non ho nessuna preparazione professionale né strumenti personali per gestirla o parlarne. Ma cavalcare il bufalo, tentare di domarlo senza ucciderlo, fuggire nel tentativo di non essere raggiunti sono tentativi validi di superare il problema senza mancargli di rispetto.

 

 

 

Elirya a ventott’anni molla tutto (appartamento a New York, marito, lavoro), tenta la via di fuga ma si accorge presto che ha viaggiato in compagnia, il mostro non è rimasto a casa: la tentazione di lasciarsi riacchiappare, di spargere violenza fuori e contro se stessa, di perdere la battaglia e lasciarsi invadere è forte, fortissima.
Una vita normale, un matrimonio, una relazione di coppia, o solo una vita infelice, possono condurre lontano, lontanissimo, in termini di realtà (una fuga, un viaggio solo andata) e in termini simbolici o mentali (psicosi, alterazione dell’umore, irritabilità, pensieri suicidi).

 

 

Ammaestrare-addomesticare la bestia indomata è il tentativo percorribile, prima di una brutta fine. C’è chi riesce, chi no, chi è più forte di carattere, chi ha più coraggio, chi ha più fortuna: sono molti gli elementi che si mischiano perché la propria strada vada in una direzione piuttosto che in un’altra. Elirya è tentata dal bene ma imbibita di male: ricorda la sorella adottiva suicida, studentessa del marito, conosciuto in occasione della morte di lei, un uomo cadutole in braccio dal cielo, portatore di pace all’inizio, macchiato di colpevolezza e di passato anche lui, forse più di lei.

 

 

La salvezza non esiste, la vediamo in un cirro a forma di ippopotamo sorridente, potrebbe fare amicizia col bufalo che scalpita dentro, peggio di un feto al nono mese scalcia e minaccia ogni istante di riversarsi fuori uccidendo ogni cosa gli capiti a tiro. La pace interiore non esiste: nessuna meditazione può annullare i mostri, può sostituirli, parcheggiarli in un deposito bagagli gratuito a fondo perduto. Tutti noi cerchiamo la sopravvivenza. Per fortuna, in molti, ce la caviamo.
fabianasargentini@gmail.com