La conoscenza dell’arte lombarda ha sofferto – detta con Longhi – di un’«ostinata assenza di una critica responsabile». Poco studiata, poco nota ma ricca di opere sul territorio (e sul mercato), l’arte lombarda diventa tra Otto e Novecento il banco di prova per l’esercizio del conoscitore.
Wilhem Suida ne fu attratto quasi subito. Era nato nel 1877 a Neunkirchen, nella bassa Austria, poco distante dalla capitale. Dopo gli studi liceali frequentò giurisprudenza a Lipsia per poi avvicinarsi alla storia dell’arte trasferendosi all’università di Heidenberg, dove insegnava Henry Thode. Fu durante le lezioni dello «zio» Thode che il giovane Suida sentì parlare di Bramantino, entusiasmandosi a tal punto alla «personalità del sensitivo e austero artista» da dedicarvisi con costanza, dopo una tesi probabilmente poco sentita che andava dietro ai temi cari al professore e alla passione che entrambi condividevano per Wagner.
Così, tra le lezioni viennesi di Wickhoff e Riegl e i primi viaggi, riuscì a dare corpo alle sua ricerche su Bramantino in due articoli – citando di nuovo Longhi – «indimenticabili», pubblicati sullo «Jahrbuch» viennese e, spinto proprio da Wickhoff, nella sua tesi per la libera docenza. Sono scritti a cui cinquant’anni dopo, nel suo Bramante pittore e il Bramantino, Suida ancora si appella, dimostrando che già allora, prima dei successivi e più accurati affondi archivistici, la profonda comprensione spinta da un vero trasporto e da uno sguardo limpido aveva dato già elementi sufficienti a una ricostruzione della vita e dell’arte del Suardi. Quasi una presa d’atto della bontà non tanto – o non solo – delle proprie ricerche giovanili, quanto del metodo acquisito tra Heidenberg e Vienna.
Lungo la tratta dei suoi viaggi e sulla scia dei suoi primi studi sull’arte lombarda Suida aveva potuto contare sulla «bontà paterna» di Gustavo Frizzoni, in una Milano che era in quegli anni una delle capitali della connoisseurship europea. Frizzoni era un ponte con l’eredità di Giovanni Morelli, e il ruolo di quest’ultimo nell’assestamento della disciplina era ben noto a Suida e ai frequentatori della Scuola di Vienna. Ma che cosa spinse lo studioso austriaco a impegnarsi in una impervia ricostruzione della carriera del Bramantino che durerà dal 1902 per mezzo secolo?
Fino ad allora su Bartolomeo Suardi detto il Bramantino si sapeva poco. Il più importante artista lombardo del suo tempo era stato a lungo dimenticato, confuso fino a far dubitare della sua stessa esistenza. Rimontarne la figura era un’impresa difficile che andava affrontata mettendo a profitto tanto il metodo morelliano quanto le indagini documentarie, le «rivelazioni tecnico-artistiche» di un restauratore come Luigi Cavenaghi, la conoscenza del territorio e delle collezioni, private e non, con guide come Guido Cagnola. Disporre, insomma, di tutti gli strumenti che definiscono finalmente la storia dell’arte come disciplina storica, trasponendo il conoscitore in filologo, e quindi in uno storico della cultura figurativa che nelle opere rintraccia i legami utili a ricucire contesti.
In questa palestra per una storia dell’arte ormai diventata scienza, non mancherà nemmeno una particolare attenzione ai raggiungimenti poetici; nel caso nostro, già in quei primi saggi dall’ampio respiro monografico Suida metteva agli apici della produzione dell’artista, e con una cronologia al 1520 circa, la Fuga in Egitto del santuario della Madonna del Sasso di Orselina, «eines der größten Meisterstücke Bramantinos». Un quadro che trent’anni prima aveva colpito Cavalcaselle e che, dopo le aperture di Suida, affascinerà Berenson per una «sensitività quasi morbosa» che anticipa Rosso e Parmigianino, per «qualche cosa che avvince irresistibilmente, come in certe arie de L’enfance du Christ del Berlioz».
La Fuga in Egitto è ancora nel santuario a pochi minuti da Locarno, dal 1922 nella sua cornice «color cioccolata al latte» prodotta dalla Fabbrica di mobili Mornaghini. Il paesaggio immediatamente prossimo, di valli umide e verdissime colline digradanti verso il lago, non dev’essere cambiato molto, né dai tempi di Bramantino né dalle prime visite di Suida. È diverso se si allarga lo sguardo su Locarno, sulle rive del lago puntinate di nuove costruzioni, di edifici curati, puliti, a tinte chiare; o a Bellinzona, dove l’antico ha guadagnato delle appendici nuovissime, come al Convento delle Agostiniane restaurato da Snozzi a Monte Carasso, l’ascensore di Galfetti nella roccia del Castelgrande… Per Suida «l’impressione del dipinto si collega in modo inscindibile a quella della natura che circonda il pellegrino. Il capolavoro sembra addirittura nato dall’ambiente: le colline coronate di fortezze e le rupi dello sfondo noi le conosciamo per averle viste nei dintorni di Bellinzona». Il quadro è una finestra sul paesaggio intorno al santuario, verso le fortezze della capitale del Cantone, sul lago e il cielo terso delle Prealpi dove i santi si stagliano come figure originate dall’immaginazione, come la visione di un fedele che percorre i sentieri per la cima del Monte Sacro di Orselina. I personaggi, fasciati dai panni «troppo molli, e rilassati» biasimati da Giovanni Paolo Lomazzo, prorompono monumentali; la mole voluminosa dell’asino nasconde altri bambini: chi sono?
In questo «viaggio di nubi sul crinale dei monti ticinesi, giusto poco prima che scenda la sera» – così Testori definiva la tavola di Orselina – , la natura assume un ruolo che non aveva mai avuto per il pittore, in un dialogo con Leonardo al suo secondo soggiorno milanese. La prospettiva, solitamente esibita, è dissimulata da Bramantino con un impasto di luci e ombre ricco di suggestioni atmosferiche che dà vita a un momento sospeso, dove l’incedere della fuga si interrompe per un chiarimento: in un dialogo fatto di gesti e sguardi Giuseppe sembra chiedere «Qual è la via?» e l’angelo risponde indicando l’orizzonte al di là del quadro, mentre Gesù sfugge all’abbraccio materno tentando di alzarsi in piedi o forse, come farebbe un bambino qualunque, cercando di afferrare le orecchie dell’asino che ha di fronte. E in quegli edifici sullo sfondo del quadro, parte forse ispirati alla mole del Castelgrande, parte d’invenzione, Bramantino torna a mostrare facciate senza rilievi, in costruzioni «simili a grattanuvole», ideali città di marmo, proiezioni formali «della potenza spirituale dell’elevazione dell’anima in sfere celesti». Per Suida «questa “modernità” di Bramantino architetto è uno dei fatti più sorprendenti nel complesso del geniale Lombardo, il quale quattro secoli fa ha potuto indovinare e creare cose che ci colpiscono, come se fossero nate oggi» e che «conosciamo dalle strade di New York». Lo studioso scopre una delle sue carte: un’attenzione al contemporaneo che coltiva da sempre; una prospettiva che consente di rispecchiare, nelle forme esteriori del passato, il presente delle «strade di New York».
Nella sua intensa carriera di storico dell’arte Suida ha spaziato molto, ma tanti degli argomenti studiati – e delle opere acquistate da collezionista, oggi perlopiù al Blanton Museum of Art dell’Università del Texas di Austin – si innervano su quest’innamoramento per Suardi; su un legame con la Lombardia acquisito in anni di assidue frequentazioni; ben dentro i misteri, allora poco sondati, delle terre ticinesi; tra alpi, laghi e santuari; lungo le rotte della poesia stregata dell’artista prediletto. Per parlare di Suida si tornerà sempre all’intelligenza sulfurea dell’inquietante e fascinoso Bramantino, e viceversa.