Non sono sospetto di pregiudizi verso i 5 stelle. Mi sono sgolato a sostenere che il Pd dovesse andare a vedere le loro carte quando Mattarella stesso gli diede modo di esplorare la possibilità di una intesa.

Sono convinto che la pregiudiziale chiusura al confronto imposta da Renzi sia stata dettata da una motivazione tutt’altro che virtuosa, di mero potere personale, ovvero la consapevolezza che non era plausibile fosse lui a capeggiare una fase politica ispirata a una linea opposta alla sua, per quattro lunghi anni imperniata sulla scelta dei 5 stelle (anziché della destra) quale avversario sistemico, nella convinzione di incassare il voto utile. Si è visto come è andata …..

A fronte della odierna, palese subalternità di Di Maio a Salvini, Renzi ha l’ardire di rivendicare le ragioni del suo ostinato diniego. Al contrario, in me si conferma e si rafforza la convinzione che quella chiusura da parte del Pd, ostaggio del suo segretario dimissionario, sia stata un imperdonabile errore.

Un comportamento omissivo irresponsabile.

Mi spiego: la subalternità alla Lega prova semmai che l’identità irrisolta dei 5 stelle li espone al condizionamento e persino all’egemonia di chi si dispone a interagire con loro. Specie se sa fare politica, facendo leva appunto sui loro limiti e sulle loro contraddizioni.

Del resto, il Pd, pur reduce da una disfatta, dentro uno scenario ormai proporzionale, rappresentava pur sempre il secondo partito italiano e disponeva di un grande potere negoziale. Salvini oggi con il suo originario 17%, ma già Craxi ieri, per tutti gli anni ’80, mostrano semmai come si possa egemonizzare forze elettoralmente ben più grandi.

Certo, ciò presuppone intelligenza e iniziativa politica.

Sconcerta invece la superficialità dell’analisi di chi legge l’attuale maggioranza di governo come un tutt’uno, un indifferenziato fronte populista, un indistinto schieramento di estrema destra. Salvo poi denunciare, giustamente, le vistose contraddizioni delle sue parole e delle sue azioni.

Ancora, sorprende che – penso al decreto «dignità», ma alla stessa idea-forza del reddito di cittadinanza, della quale si possono discutere la formulazione e le coperture incerte – non si apprezzi il segno solidaristico e di sinistra: quello del contrasto alla disoccupazione, alla precarietà, alla povertà.

Purtroppo, l’amara verità è che il Pd sembra avere smarrito la sua originaria sensibilità sociale e la sua «costituzione materiale» di partito di sinistra riformista (parola malata, si è detto, non a torto) a matrice popolare.

Così pure non si può ignorare la sensibilità dei 5 stelle per la lotta ai privilegi, all’illegalità, all’invadenza delle lobby, al conflitto di interessi.

Chi, a ragione, si mostra preoccupato per le altrettanto innegabili pulsioni illiberali e populiste della maggioranza, comprensibilmente, fa qualche affidamento sul senso di responsabilità dei ministri tecnici dal profilo più istituzionale, meno schiacciati sui due partiti firmatari del contratto di governo.

Quelli per i quali, sin dalla nomina, sarebbe riconoscibile la mano del Quirinale. Tria tra questi.

Ripeto: capisco. Tria si mostra consapevole dei vincoli della finanza pubblica e degli impegni sottoscritti con la Ue. Non ha l’ossessione del dividendo elettorale. Ma il suo «maanchismo», il suo equilibrismo, le sue acrobazie lessicali non possono reggere a lungo.

Penso alle rassicurazioni del tipo: il reddito di cittadinanza altro non è che la revisione di strumenti di protezione sociale già in essere (e «chiedersi quanto costa è una domanda sbagliata»); gli annunciati condoni sono solo un «fisco amico»; la flat tax non porrà problemi alla tenuta dei conti pubblici e, più ancora, essa sarà disegnata in conformità al principio costituzionale della progressività della tassazione.

Come la flat tax possa essere progressiva è un mistero insondabile. Contraddice la matematica.

Non entro nella disputa circa il rapporto tra politici e tecnici, su rapporto fiduciario, «spoil system» e indipendenza della pubblica amministrazione. Mi limito a osservare che il giusto primato della politica non può spingersi sino al negazionismo verso i fatti, le cifre, la logica, il senso e il peso delle parole.

Inutile girarci intorno, alla radice stanno l’equivoco del «contratto di governo» siglato da due forze ideologicamente e programmaticamente alternative e l’illusione che qualche tecnico possa comporre contrasti oggettivamente insanabili (l’azzimato premier Conte, che la Costituzione vorrebbe attivo garante dell’indirizzo politico del governo e della sua coerenza, nessuno lo calcola proprio).

I programmi per definizione rinviano a visioni di società ed esse, a loro volta, presuppongono scelte per definizione selettive su valori e interessi da privilegiare.

L’opposto della snobistica o truffaldina teoria secondo la quale destra e sinistra non significherebbero più nulla.

Tesi teorizzata dai 5 stelle e praticata dal Pd renziano.