Nel 1965 Grace Slick, allora cantante del gruppo rock californiano Great Society, scrive una canzone destinata a diventare, due anni più tardi e suonata dalla sua nuova band, gli Jefferson Airplane, la colonna sonora psichedelica della Summer of Love.

La canzone si chiama White rabbit e viene composta dalla Slick per il centenario della pubblicazione del celebre libro di Lewis Carrol Alice nel paese delle meraviglie, testo ricco di giochi di parole, filastrocche, poemetti e riferimenti letterari mascherati. Tutto questo, che deriva dalla multiforme personalità dell’autore, ne fa un libro per l’infanzia assai particolare e aperto a diversi livelli di lettura.

In più Carroll, sulla scorta della propria formazione di matematico, nasconde tra le righe molti giochi ed enigmi matematici, che si sommano ai numerosi indovinelli che costellano le avventure fantastiche della giovane Alice.

Per tutto questo Alice nel Paese delle meraviglie ha rappresentato, per la beat generation e non solo, una fonte permanente di ispirazione. Il grande Jorge Luis Borges, ad esempio, ebbe sempre una sorta di venerazione per quel libro e per la capacità visionaria del suo autore, affetto, pare, da una rara malattia neurologica che gli causava, tra gli altri sintomi, anche distorsioni percettive.

White rabbit, in effetto, è una epitome poetica dei passaggi salienti dell’avventura psichedelica di Alice, dal seguire il bianco coniglio nella sua tana, alle pillole che la fanno prima crescere e dopo rimpicciolire (one pill makes you larger and one makes you small) sino all’incontro con il bruco intento a fumare il suo narghilè (hookah-smoking caterpillar) evidentemente pieno di una sostanza stupefacente.

I riferimenti all’allora nascente culto degli psichedelici, come l’LSD, che spesso si consumava in pillole, le famose micropunte o piramidi, è chiaro, come pure esplicita è la citazione degli effetti relativi ai funghi contenenti la psilocibina, altro principio attivo psichedelico (And you’ve just had some kind of mushroom, and your mind is moving low). Infine il verso che rappresenta il programma fondamentale della ricerca psichedelica: «Remember what the dormouse said: feed your head», ricorda cosa ti ha detto il ghiro: nutri il tuo cervello.

Questo imperativo è la versione contemporanea, ma non per questo denaturata nella sua essenza radicale, del Conosci te stesso campeggiante sull’architrave del tempio di Delfi e che rappresenta, sin dall’antichità classica, il télos, il compimento, del pieno dispiegamento dell’essenza personale, la «retta via» per arrivare ad agire il mistero del proprio esserci nel mondo. Non è un caso, lo vedremo tra poco, che questa frase sia suggerita da un ghiro (dormouse), l’animale «dormiente» per eccellenza.

Il Coniglio bianco ebbe da allora una storia di ripetute citazioni, attraverso i vari film che portarono sullo schermo le avventure di Alice a partire dagli anni ’20 del Novecento, passando per Walt Disney sino alle ultime pellicole di Tim Burton, arrivando a Matrix, in cui Neo inizia la sua avventura di liberazione nella wonderland creata dalle macchine per governare gli umani, seguendo appunto il coniglio bianco.

L’avventura di Alice, per ammissione dello stesso Lewis Carroll, venne inserita in un contesto che, a modo suo, voleva riproporre le Wunderkammer tanto in voga dal XVI secolo al XVIII secolo.

Anche l’Alice psichedelica diviene un personaggio di culto, che ispira pellicole iconiche come Alice’s restaurant con Arlo Guthrie, che ne compose anche la colonna sonora. Qui viene ripresa, su scala cinematografica, la parabola della complessa relazione tra figli e genitori che la canzone riassume nel verso «and the ones that mother gives you, don’t do anything at all», riferito al contrasto tra le pillole psichedeliche che Alice prende e quelle «che tua mamma ti ha dato e che non fanno nulla».

La canzone è citata anche nel film del 1998 Paura e delirio a Las Vegas di Terry Gilliam. Naturalmente non possono mancare, tra questi riferimenti, gli epigoni della beat generation nostrana, l’Equipe 84 ed il loro Nel ristorante di Alice e la Radio Alice del movimento studentesco del ’77 bolognese.

Nel viaggio di Alice il riferimento alle pratiche iniziatiche dell’antichità, ai cosiddetti Misteri che conducevano il soggetto alla scoperta delle Verità ultime, di «Quelle cose» come le definisce Omero nel suo Inno a Demetra, parte appunto dal ghiro e dal suo sonno. Pitagora, infatti, grande iniziato dell’antichità, citato in esergo ad uno dei capitoli del famoso libro di E. Schuré I Grandi iniziati, ci ricorda che i tre stati per raggiungere la verità dell’essere sono: «il sonno, il sogno e l’estasi».

Ecco allora il consiglio del ghiro, animale che indubbiamente simboleggia bene la compresenza stessa di tutti e tre: non si dice infatti «dormire come un ghiro», sia per esprimere uno stato di sonno in quanto tale che l’immersione in una sorta di beatitudine onirica? Per questo non venne scelto a caso da Carroll e conseguentemente inserito dalla Slick nell’ultimo verso della canzone.

Ora, è noto che nelle cerimonie di Eleusi, per quel poco che ne sappiamo in virtù del giuramento strettissimo degli adepti a non svelare le pratiche iniziatiche pena la morte, era in uso una bevanda, il ciceone, che, probabilmente, conteneva un qualche principio psicoattivo, forse quello stesso microfungo, la claviceps purpurea, parassita della segala cornuta, che poi fu alla base del più famoso alcaloide della modernità: l’LSD prodotto in laboratorio nel 1943 dal chimico svizzero Albert Hofmann che scopre gli importanti effetti psichedelici di alcuni alcaloidi contenuti nell’ergot, come viene chiamato questo ascomicete, ed in particolare dell’acido lisergico e della sua dietilammide di sintesi.

La grande famiglia delle sostanze psichedeliche, capaci cioè, come dice la parola stessa, di creare immagini che nascono dalla mente o, forse meglio sarebbe dire, si palesano al soggetto come apparizioni (delóo) della sua stessa anima (psiché), sono stati per questo recentemente ribattezzati enteogeni, neologismo formato da entheos, divinamente ispirato, e genesthai, che genera, cioè «che generano ispirazione divina».

Ora, in estrema sintesi, le droghe, quelle psicotrope in particolare, sono sempre state supporti importanti per la comprensione umana del mondo; hanno contribuito a tendere il nostro arco sensorio sino a rompere con le loro frecciate le false dualità che ci opprimono, ma al contempo ci proteggono dalla parte più oscura di noi stessi: conscio/inconscio, persona/cosmo.

Ecco che, allora, percorrere consapevolmente il loro sentiero significa, come appunto fa Alice, entrare nella tana del Bianconiglio per uscirne trasmutati alla luce della Verità, come nel caso del mito della caverna platonica o, ancora oggi, degli iniziati alle Comunioni esoteriche tradizionali.

Per il sistema delle analogie tra i vari piani della simbologia che rimandano alla Scienza sacra, la metafisica pura, sappiamo che Soma, il corrispondete del ciceone eleusino caro a Demetra, era anche l’antico nome di Shiva, il Dioniso indiano; la sua identificazione col nettare allucinogeno omonimo, che mostrava l’universo nella sua essenza e nel suo potere, rende ragione del fatto che le realtà immaginali archetipiche si posso cogliere solo nei momenti estatici che legano tra loro i contrari, a partire da quello da cui tutti gli altri derivano: vita/morte. Ogni pianta derivata da un seme esprime questa verità profonda, unitaria, che vibra: è per questo che le droghe più potenti, inebrianti, guaritrici, illuminanti, si ricavano da esse.

Nietzsche, nella Gaia scienza, propone una storia delle droghe come storia del sentire; E. Zolla nel suo Il dio dell’ebbrezza, antologia di racconti dedicati agli stupefacenti come manifestazioni di Dioniso, ci ricorda come ogni periodo dell’umanità abbia avuto le sue droghe di riferimento, spesso identificate con le divinità del ciclo vita/morte: Osiride «sta all’ombra dell’albero noubs», identico, secondo alcuni, all’erba stupefacente omerica moly, che tanto ruolo ebbe nella vicenda legata al fascino sovrumano di Circe, capace di trasmutare gli uomini nella loro vera natura. In un epigramma dell’Antologia Palatina, infatti, attraverso l’immagine dell’episodio omerico di Odisseo e Circe, viene rappresentato il problema spirituale di fondo che travaglia l’uomo greco, il quale, diviso fra le due sfere del celeste e del terrestre, prorompe nel grido: «Lontana da me, tu, caverna tenebrosa di Circe: son nato progenie celeste, ed è per me vergogna le ghiande mangiar come un bruto! Concedermi o Nume del moly il fiore che scaccia i cattivi pensieri».

Ecco come Ulisse riesce a non trasformarsi in maiale, a differenza dei suoi concupiscenti compagni di viaggio, e ad imporsi a Circe. Interessante notare che alcuni autori identificano questa mitica pianta, cara ad Hermes, il dio dei transiti e degli alchimisti, con l’aglio, per l’assonanza con il suo nome in greco: molyza. Ora, dato il potere revulsivo che esso esercita su diverse creature della notte, a partire dai vampiri, non sembra improbabile che Odisseo, per resistere agli incantesimi della oscura maga, diciamo come minimo per allontanarla da lui, ne abbia usato.

Lo stesso scopo di ricerca interiore ha l’ayahuasca amazzonica, usata dagli sciamani per comunicare col mondo vegetale e animale e trarne così le risposte necessarie all’equilibrio del tutto. T. De Quincey, nelle sue esperienze visionarie, cita l’oppio che «abbatte il fisico ed esalta la mente», farmaco principe non solo per tutta la medicina orientale, ma altresì simbolo sacro di Demetra in Occidente, non a caso rappresentata sempre con dei papaveri in mano. Anche l’hascisc fumato dai seguaci di Shiva e dalla leggendaria setta degli assassini che da esso prendevano il nome, continua a mantenete per le generazioni contemporanee le promesse delle sue beatitudini. E come non parlare del dionisiaco vino mediterraneo, o della sacra foglia di coca degli altipiani andini, segno dell’alleanza tra quei popoli e la Pacha Mama, la Natura Naturans di Spinoza. Nella quotidianità di ognuno di noi trovano posto altre droghe, dalla teobromina, letteralmente «nutrimento degli dei», principio del cacao, in origine riservato solo al re Inca e alla sua famiglia, sino al il caffè e la meditativa pianta del tè, nata dalle palpebre tagliate di un bodhisattva in perenne stato di veglia.

Non abbiamo lo spazio per analizzare qui le deviazioni contemporanee da questi usi originari, ma possiamo dire che l’abuso odierno degli stupefacenti è tutto all’interno del mondo desacralizzato che ci circonda e ci attraversa, e dunque che l’effetto prodotto da questi agenti non può che essere degenerato, come tutto ciò che oramai afferisce al «regno della quantità», secondo la definizione dell’Occidente coniata dal cultore della metafisica pura Renè Guénon.

Quest’anno, nella ricorrenza dei 125° della morte di Lewis Carroll, è interessante riandare anche al secondo libro delle avventure di Alice, Attraverso lo specchio: «Fingiamo di poterci entrare, Frufrù, fingiamo che lo specchio sia morbido come un velo, e che si possa attraversare. To’, adesso sta diventando come una specie di nebbia… Entrarci è la cosa più facile del mondo». Ed ecco che Alice attraversa lo specchio, diventato magicamente fluido, per ritrovarsi in un altro spazio tempo: è entrata così nell’illo tempore delle fiabe e dei miti, il tempo circolare in cui vive «ciò che mai avvenne ma sempre sarà» come dice Salustio nel suo Degli dei e il mondo.

Oltretutto, per far sì che il diaframma tra la realtà al di qua e quella al di là dello specchio sia più che sottile, dobbiamo ricordare la struttura chimico-fisica stessa dello specchio che, ci dicono i testi specializzati, ci dà modo di giocare con il potenziale di questa imago poiché, come constata Alice, il vetro è un fluido, una specie di nebbiolina appunto, seppure di altissima viscosità e con legami intermolecolari ed attriti che ne mantengono inalterata la forma per lunghissimi periodi. Borges proprio per questo, da par suo, aveva intuito una vertiginosa analogia: quella tra specchio e spazio-tempo.

Anche Rilke, nel terzo dei suoi Sonetti a Orfeo, canta il mistero di questa analogia: «Specchi, nessuno mai coscientemente ha descritto la vostra vera essenza. Voi, intervalli del tempo, crivelli fitti di innumerevoli buchi»; non sembra che qui sia un astrofisico a parlarci dei buchi neri? Secondo Maestro Eckart (XVI sec.): «Il riflesso dello specchio nella luce del sole è nel sole stesso; eppure sole e specchio restano quello che sono. Lo stesso accade per Dio: egli si trova nell’anima… eppure non è nell’anima, è il riflesso dell’anima che è in Dio… Dio diventa così ogni creatura».

L’onirismo del tuffo attraverso lo specchio ridivenuto liquido mercé la sua capacità trasmutante è ancora più accentuato ed esplicito in due film di Cocteau. Uno è Il sangue di un poeta del 1930, in cui la scena dell’attraversamento venne girata scaraventando l’attore in una piscina di mercurio! In questo film torna una versione esagitata di Alice sul caminetto. Cocteau tornerà sull’attraversamento dello specchio in Orfeo con Jean Marais, ambientato nella Parigi anni cinquanta, nel quale dopo la morte di Euridice un misterioso personaggio, sorta di angelo custode del poeta, lo aiuta ad attraversare uno specchio perché egli possa recarsi nell’aldilà e riportare indietro sua moglie.

E allora, se Alice prende certe droghe psichedeliche che modificano non solo il suo corpo, ma soprattutto il suo stato di coscienza – ad un certo punti dirà al bruco: «Non son stata io, io in persona a levarmi questa mattina? Mi pare di ricordarmi che mi son trovata un po’ diversa. Ma se non sono la stessa dovrò domandarmi: chi sono dunque?» – forse se vogliamo in qualche modo sciogliere il nodo di ciò che separa l’intelligenza umana da quella artificiale, dovremmo cominciare col somministrare ai nostri nuovi robot androidi qualche droga elettronica affinché, così facendo, appaia infine chiara la differenza che esiste tra un insieme di dati che imitano e per certi versi certo superano le facoltà umane, e ciò che ci rende così unici agli occhi degli dei: crearli e sognarli.